lunedì 27 aprile 2009

Liberiamo i libri, di Paulo Coelho

In realtà non possiedo molti libri. Alcuni anni or sono ho fatto determinate scelte di vita, improntate all'idea di cercare di ottenere il massimo della qualità con il minimo di oggetti materiali. Questo non significa che io abbia optato per una vita monastica; anzi, all'opposto, quando non siamo obbligati a possedere un numero infinito di oggetti, la nostra libertà è immensa.

Per tornare all'essenziale, la mia decisione ha voluto dire che nella mia biblioteca conservo soltanto 400 libri.
La decisione è stata ispirata da ragioni molteplici, una delle quali è la tristezza generata dal fatto di vedere collezioni messe insieme con cura nel corso di una vita e poi svendute a peso, senza il minimo rispetto.

Un'altra ragione: perché dovrei avere in casa tutti questi volumi? Per far vedere agli amici che sono un tipo colto? I libri che ho acquistato saranno molto più utili in una biblioteca pubblica, che non a casa mia. Un tempo ero capace di dire che mi servivano, perché li avrei consultati. Ma oggi, ogni volta ho bisogno di una qualunque informazione, accendo il computer, digito una parola chiave e mi compare davanti ciò che mi serve. Ecco internet, la biblioteca più vasta della Terra.
Naturalmente continuo a comprare libri: nessun dispositivo elettronico li può rimpiazzare. Ma appena ho terminato di leggerne uno lo lascio libero di viaggiare, lo passo a qualcuno o lo consegno a una biblioteca pubblica.

Il mio intento non è quello di salvare le foreste o di mostrarmi generoso; è solo che penso che un libro abbia un'esistenza propria e non debba essere condannato a restare immobile su uno scaffale.
Essendo uno scrittore, e campando di diritti, forse sto facendo propaganda a mio svantaggio. Ma comportarsi diversamente sarebbe ingiusto nei confronti del lettore, specie nei paesi in cui molti dei piani d'acquisto stabiliti per le biblioteche non hanno come criterio di base una scelta seria. Quindi lasciamo che i libri viaggino e che altre mani li tocchino.

Mentre scrivo, mi viene in mente, sia pure in modo vago, una poesia di Jorge Luis Borges che parla dei libri che non verranno mai più aperti. Mi trovo in una cittadina dei Pirenei francesi, seduto in un caffè. Si dà il caso che a casa, a un paio di chilometri da qui, abbia l'opera completa di Borges; è uno scrittore che rileggo in continuazione. Perché non fare la prova?

Attraverso la strada. Cammino per cinqueminuti, fino a un altro caffè, fornito di computer (un tipo di locale noto con il nome chiaro e al tempo stesso contraddittorio di cybercafè). Saluto, ordino un'acqua minerale, apro un motore di ricerca e digito alcune parole dell'unico verso che riesco a ricordare, insieme al nome dell'autore. Meno di due minuti dopo ho davanti agli occhi la poesia completa:

C'è un verso di Verlaine che non ricorderò più,
c'è una strada vicina ch'è vietata ai miei passi,
c'è uno specchio che m'ha visto per l'ultima volta,
c'è una porta che ho chiuso sino alla fine del mondo.
Tra i libri della mia biblioteca (li sto vedendo)
ce n'è qualcuno che non aprirò più.

In effetti ho l'impressione che non riaprirò mai alcuni dei libri che ho dato via. Penso però che sarà meraviglioso che la gente possieda una biblioteca; il primo contatto che i bambini hanno con i libri nasce dalla curiosità nei confronti di questi volumi rilegati, con illustrazioni e lettere. Ma penso anche che sia fantastico quando durante una sessione di autografi mi imbatto in lettori con copie usatissime. Significa che il libro ha viaggiato proprio come viaggiava, durante la scrittura, l'immaginazione dell'autore.


Il contributo è tratto da:
- Wired, No. 1, Marzo 2009

L'immagine appartiene a:
- www.pictures.gi.zimbio.com

venerdì 17 aprile 2009

L'Ecologia delle Notizie, di Al Gore

Il giornalismo tradizionale sta vacillando ovunque. I quotidiani, i newsmagazine e i network tv che trasmettono notizie erano in crisi già prima della recessione globale e lo sarebbero stati comunque. Se si aggiunge la crisi finanziaria, si comincia a intravedere una rivoluzione epocale: di quelle che trasformano in maniera irreversibile gli ecosistemi.
Di quelle che uccidono i dinosauri.

Nello stesso tempo, il nuovo mondo digitale intorno a noi sta fiorendo in una complessità straordinaria. Il Ventesimo è stato il secolo dei titani: due dozzine di aziende gigantesche, due centri di potere principali e nuovi strumenti che si contavano sulle dita di due mani. Il Ventunesimo secolo è già diverso: massicciamente multipolare, online, e realmente in grado di cambiare il mondo.
E la posta in gioco è molto, molto alta.

Per dare un senso a questa trasformazione mondiale avremo bisogno di un giornalismo migliore di quello a cui siamo abituati. Da parte nostra, come cittadini e utenti dei media, stiamo diventando più bravi a servirci delle notizie. Siamo ormai allenati a quella corsa a ostacoli che, ormai da dieci anni, è l'informazione. Cerchiamo. Filtriamo. Condividiamo.
Queste capacità non sono distribuite in modo uniforme ed equo, ma si stanno diffondendo rapidamente e danno ragione alla speranza: la sfera pubblica è più viva che mai. Quindi mai come oggi abbiamo bisogno di buon giornalismo, e la novità è che può trovare un pubblico più ampio di quanto non abbia avuto finora.

Ma in questo momento di grandi opportunità ci troviamo di fronte a una crisi: le news stanno morendo.
Si sentiranno i guru dire che la causa sono i pc, i cellulari, internet e i browser. La tecnologia sarà l'unica colpevole. Ha ucciso le news, ma alla fine le salverà.

Ma focalizzarsi solo sulla tecnologia è un errore. La vera sfida, quella più seria, ha a che vedere con l'intero sistema.
Anche quando le notizie si spostano online, sembra esserci qualcosa di sbagliato nel modo in cui sono confezionate e diffuse. Sono troppo lente, ingessate. Il tono è raramente in sintonia con quello del web. Sembrano pensate per fornire i prodotti sbagliati. Una rivoluzione che produca buone news va ben oltre i siti web, la multimedialità, i blog, i contenuti generati dagli utenti o qualsiasi altra tecnica su cui passiamo tanto tempo prezioso a discutere. Richiede nuovi sistemi e nuove organizzazioni.

Vorrei suggerire un'analogia con l'unico sistema nuovo degli ultimi anni che ha avuto un successo enorme. Non è stato costruito per le news, anche se è stato oggetto di infinite news: mi riferisco alla campagna elettorale di Barak Obama.
L'uso che Obama ha fatto della tecnologia è stato molto decantato, e a ragione. Ma la tecnologia da sola non lo avrebbe fatto vincere. Lui l'ha saputa combinare con nuove opportunità di partecipazione e nuove strategie per organizzare i sostenitori e la gente sul territorio. Ha rischiato forte nella "devolution" dell'informazione, concedendo il potere di prendere decisioni ai volontari, alla base del partito. E nel frattempo ha raccolto più denaro di qualsiasi altra campagna elettorale della storia.

La tecnologia è stata usata anche per comunicare tutta la complessità che richiede una democrazia sana. Il discorso chiave di Obama, quello sulla razza, ha prodotto solo brevi titoli e clip tv, ma 10 milioni di persone lo hanno scaricato dal web per intero. Un momento di crisi si è trasformato in un punto di non ritorno che è stato anche l'inizio del successo.
Grazie all'abilità di Obama nel costruire un sistema, gli Stati Uniti si sono guadagnati il governo di cui hanno bisogno in uno dei momenti più difficili della loro storia. E ora abbiamo bisogno di un giornalismo che ne sia all'altezza.

Questa è una delle ragioni per cui Joel Hyatt ed io abbiamo creato Current, un network di notizie a carattere partecipativo disponibile in tutto il mondo sul web e in tv, compreso Sky Italia. Vogliamo contribuire a un sistema alternativo che sappia anche generare profitto. Come la campagna di Obama, Current mescola la tecnologia, la partecipazione massiccia e la gente sul territorio, tutto per un obiettivo a cui vale la pena credere. E che possa essere commercialmente vantaggioso.

Voglio sottolineare un'importante differenza: ci sono altre organizzazioni che cercano di imbrigliare il potere della partecipazione in nome della notizia. Ma pochi lo combinano, come facciamo noi, con cittadini giornalisti e reporter sul posto, in ogni luogo del mondo. Noi sollecitiamo i contributi sul nostro sito, ma mandiamo anche i nostri giovani e coraggiosi giornalisti Vanguard in alcuni dei posti più pericolosi del mondo. La tecnologia da sola non vi porterà mai nel cuore di Mogadiscio o nello stretto di Malacca.

Nel momento in cui molte organizzazioni di news si ritirano e pensano a Internet come a un modo per tagliare i costi e sostituire le inchieste internazionali e investigative, Current investe in entrambe.
Pensiamo ancora alla campagna di Obama, la prima davvero figlia del nuovo secolo, e a come ha mobilitato migliaia di persone. Le ha spinte a fare chilometri, a bussare alle porte, a coinvolgere i vicini. La lezione è che la tecnologia è solo una parte del sistema. E quando si innova il sistema, si cambia il mondo. Current sta facendo questo. Ma abbiamo bisogno che altri facciano gli stessi passi, perché gli obiettivi sono troppo grandi per noi soli. Se tutti insieme accettiamo la sfida, possiamo creare una nuova "ecologia delle notizie", che vada incontro alle opportunità e alle necessità del nostro tempo.


Il contributo è tratto da:
- Wired, No. 1, Marzo 2009

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- www.agoramagazine.it

domenica 12 aprile 2009

Aiutiamo l'Abruzzo!

La Facoltà di Scienze della Comunicazione della Sapienza di Roma partecipa al lutto per i tragici avvenimenti che hanno colpito l'Abruzzo e ricorda che la Sapienza ha aderito all'iniziativa della Crui (Conferenza dei Rettori delle Università Italiane) per una sottoscrizione di solidarietà a favore dell'Università dell'Aquila e della Casa dello Studente.

Per donare è sufficiente inviare una e-mail all'indirizzo ufficiostipendi@uniroma1.it o una comunicazione via fax al numero 06 49910466, precisando l'importo che si intende devolvere (minimo 20 euro).

Gli studenti e tutti coloro che non percepiscono emolumenti dall'Università possono offrire il loro contenuto effettuando un versamento sul conto aperto della Crui, intestato a Università emergenza Terremoto, codice Iban IT 80 V 03203 000500074995.

martedì 7 aprile 2009

Il Web e le comunità documentali, di Maurizio Ferraris

Si parla molto in questi mesi di Facebook, si dibatte se valga la pena di entrarci e soprattutto ci si chiede un po' angosciatamente come fare a uscirne una volta che ci si è dentro. Ma è la punta emersa dell'iceberg, in un mondo del web dove sono possibili tradimenti, pellegrinaggi a Fatima, shopping a Londra e persino confessioni via email, con assoluzioni per posta ordinaria. Ecco il mondo nuovo, altro che la conquista di Marte.

Un mio amico che insegna a New York e ha la famiglia in Italia, si vede da anni recapitare ogni giorno la spesa che la moglie fa per lui sul sito di un supermercato americano. Nella sua semplicità, questa situazione rivela trasformazioni impensabili poco tempo fa e suggerisce interrogativi che la fantascienza non si era mai posta. Per esempio, le suore di clausura che oggi navigano su internet sono ancora in clausura? Di certo, un detenuto che, per ipotesi, avesse accesso a Second Life non sarebbe davvero in prigione, ed è per questo che il web è vietato in carcere.
Quando si è parlato del telelavoro non si pensava che si sarebbe stata anche la teleamicizia, la telefamiglia e la televita. Quelle che si creano o si trasformano sono comunità, non solo circuiti di sapere nello stile di Wikipedia, come si pronosticava non molto tempo fa (L'intelligenza collettiva di Pierre Lévy è del 1994). La trasformazione non riguarda quello che si sa (per importante che sia), ma quello che si fa, come lo si fa, e il modo in cui lo si vive.

Qual è la vera leva di questo gigantesco cambiamento, che non è avvenuto all'epoca della televisione, dei telefoni e dei jet, ma ha dovuto attendere i computer e i telefonini? Si risponde spesso che la svolta dipende dal "virtuale", che vuol dire tutto e niente. Io azzerderei una risposta un po' più precisa. Secondo me, il vero eroe è l'estensione ".doc", quella abbrevazione di "documento" che ha invaso la nostra vita da un paio di decenni. Le comunità virtuali sono comunità documentali, basate cioè sulla condivisione di scritture e di protocolli invece che di parole e di vicinanza fisica. E non è affatto detto che siano più inautentiche delle comunità "naturali". Di certo, al loro interno c'è un dialogo più intenso. Ecco il senso del cambiamento.

La documentalizzazione della vita, in effetti, non è una novità assoluta: religioni si sono formate sui libri, nazioni su costituzioni, opinioni su giornali, e già Werther e Jacopo Ortis si struggevano sulle chat dell'epoca. Ma, come sempre, il web, grande rete di scritture e di registrazioni, ha portato un salto di qualità, per non parlare delle biotecnologie, dove la gestione della vita è sempre più documentale: dal Dna ai protocolli per la fecondazione assistita, alle famiglie basate sui documenti piuttosto che sul sangue.
Se le cose stanno così, siamo solo sulla soglia di una trasformazione piena di promesse (e non solo di minacce, come vogliono i conservatori), in cui sembra realizzarsi la credenza rabbinica narrata da Gershom Scholen nei Segreti della creazione: il mondo è stato costituito da una aggregazione di lettere.


Il contributo è tratto da:
- Wired, No. 2, Aprile 2009

L'immagine appartiene a:
- www.labont.it

lunedì 6 aprile 2009

Il Web vi opprime? Prendete il metrò, Intervista a Clay Shirky


In un articolo che ha fatto il giro del mondo affermi che ogni minuto in cui guardiamo la TV anziché arricchire Wikipedia è tempo buttato. Non ti pare di essere un po' integralista?

  • Ma no, non dico questo. Dico che qualsiasi sostanza è velenosa in grandi quantità. La questione con la TV non è se guardarla o no: ma capire come sia diventata una specie di babysitter del mondo. Venti ore alla settimana o più di TV? Non è troppo?

Questa non è un'analisi nuova...


Certo che no. Tra il 1950 e oggi la TV è diventata "il" mezzo, il più potente nella storia del mondo. E quello con la potenza di assorbimento più totalizzante. La radio non creava quello stato vegetativo nell'ascoltatore.


Nel tuo ultimo libro, Uno per uno, tutti per tutti (pubblicato da Codice il 27 marzo), fai degli esempi di partecipazione che hanno reso possibili archivi fotografici creati dal basso, o ricerche mondiali di un telefonino perduto. Tutte belle storie, ma hai anche esempi moralmente più proficui? Iniziative partecipate impensabili prima, e che migliorano il mondo?
  • Ce ne sono moltissimi. L'anno scorso i fan di Josh Groban, il cantautore, hanno aperto una fanboard per fargli un regalo di compleanno: la raccolta di fondi per un progetto a favore degli orfani in Sudafrica. Hanno messo insieme quasi 50mila dollari attraverso la rete. Senza internet non ci avrebbero neanche potuto pensare. E quest'anno lo hanno rifatto. Ma non devi sottovalutare i progetti spontanei di condivisione apparentemente meno "importanti".

Tipo?

  • Anche quando le persone fanno delle fesserie frivole - mettere su Flickr foto di gatti che ridono, commentarle e archiviarle assieme - per me è comunque meglio che stare a guardare la TV.

Non sarebbe meglio utilizzare quegli strumenti per fare qualche cosa di più utile?

  • Se vedi il bicchiere mezzo vuoto e hai una visione utopistica del mondo per cui tutti potremmo fare grandi cose, le foto dei gatti sono una perdita di tempo: ma per come la vedo io è decisamente meglio che guardare la TV.

Ma non è che condividere le foto dei gatti generi un'infondata consapevolezzadi partecipazione, un alibi per non fare altro? Se sto davanti alla TV, almeno so sto buttando via il tempo e mi sento in colpa...

  • Tu sei troppo ambizioso. Ti ripeto che è meglio fare qualunque cosa, sempre. E poi ognuno sceglie cosa fare degli strumenti che ha a disposizione: sta a noi escogitarne l'uso migliore.

Già... Eppure il successo di Facebook in Italia è spinto dal messaggio che ci puoi trovare i compagni di scuola. Non sarebbe meglio dire che ci si possono fare anche delle grandi cose?

  • Ma si fanno grandi cose con Facebook! In California ha portato al voto molti immigrati che neanche sapevano di averne il diritto. La partecipazione è questo, il creare delle iniziative dal basso e usare al meglio gli strumenti per farle crescere.

Non pensi che anche le élite abbiano il dovere di educare le masse? Non ridere, era una citazione. Capisci cosa intendo?

  • Sì. Ma non penso che Internet sia utile in questo senso. Io non credo alla perfezione, alle utopie e alla loro diffusione. Credo che il miglioramento sia in queste nuove opportunità.

Tu quindi pensi che l'uso del Web nella comunicazione politica non sia soltanto un bluff...

  • No, non lo è. Basta avere chiaro di cosa si parla. La campagna di Obama ha dimostrato che era falso che il Web servisse per il fundraising e non per l'organizzazione. Lui non ha educato le masse ma ha usato un sistema di strumenti online per organizzarle e mobilitarle. Nel 2006 (prima dell'annuncio della candidatura) nessuno avrebbe scommesso un centesimo su un presidente nero. E la ragione della rivoluzione è stata il suo uso dei social media. In America i giornali hanno questo mito della neutralità: se solo i media tradizionali avessero seguito Obama e la sua campagna, gli elettori avrebbero continuato a percepirlo come un alieno senza una chance. Sono cose come i video di Will.I.Am e Obama Girl che hanno contribuito a renderlo un candidato plausibile.

Dici che se McCain avesse usato la rete allo stesso modo di Obama avrebbe avuto più chance?

  • McCain ha provato a usare il Web per raccogliere fondi. Ma ha messo sul suo sito delle cose preconfezionate che i suoi sostenitori potessero copiare e incollare sui blog. Questo perché non si fidava dei suoi supporter. Non li ha invitati a partecipare: non ha lasciato che fossero loro a costruire la campagna.

Ma tu riesci a gestire in modo qùequilibrato il tuo tempo e tutte le cose che la rete ti consente?

  • Il Web è una macchina da distrazione. Sempre, quando si passa da un uso occasionale a un uso continuo di una cosa nuova, bisogna trovare un modo per mantenere l'attenzione e la concentrazione. Senza venirne travolti. Questo è senz'altro un problema reale.

A chi lo dici.

  • Non hai ancora visto niente. Ora metono il wi-fi sugli aerei. La genete guarderà dei porno in volo sul Pacifico. Ma io credo che troveremo i modi per adattarci.

E il tuo modo qual è? Come sei riuscito a scrivere il tuo ultimo libro, per esempio?

  • Ho fatto un paio di cose. Intanto ho tagliato molte letture: giornali, riviste e newsletter.

E quando fai così non hai paura di perderti qualcosa che magari ti servirà in futuro?

  • Sì, e succederà per forza: ma ti devi abituare all'idea che non saprai mai tutto. E' un'illusione da abbandonare quella per cui puoi seguire tutto quello che avviene. E poi ho trovato degli spazi sicuri. A volte sono rimasto sulla metropolitana per due ore, perché mi distraevo meno che stando sul Web. Facevo il giro completo della linea. Bisogna sapersi volontariamente staccare da tutte queste cose.

di Luca Sofri


Il contributo è tratto da:
- Wired, No. 2, Aprile 2009

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- happenupon.files.wordpress.com

mercoledì 1 aprile 2009

Harold Lasswell - Il Modello di Lasswell

Un metodo corretto per descrivere un atto comunicativo consiste nel rispondere alle seguenti domande:
  • chi
  • dice che cosa
  • per mezzo di che canale
  • a chi
  • con quale effetto
E' con queste parole che Harold Lasswell, nel 1948, tentò di organizzare un campo di studi allora caotico come quello della comunicazione. Il modello di Lasswell ha il merito, infatti, di identificarsi come il primo tentativo di introdurre allo studio dei processi comunicativi, attribuendo ruoli e parti ai diversi soggetti coinvolti nonché precise dinamiche di interazione.

Oltre a descrivere più analiticamente il processo comunicativo, il modello di Lasswell, come detto, si presta ad organizzare il campo della ricerca e dell'analisi in aree aventi distinti oggetti di indagine.
  • Prestare attenzione a "chi" attiva il processo comunicativo significa collocarsi nell'area di studio dell'emittenza: vale a dire di quei soggetti che producono messaggi comunicativi. Gli studi sull'organizzazione del lavoro giornalistico, delle emittenti televisive e delle nuove tecnologie della comunicazione si inscrivono all'interno di un filone di studi che ruotano intorno alla figura dell'emittente e che hanno percorso due strade, l'una tracciata dalla sociologia delle professioni, l'altra dalla sociologia del lavoro e dell'organizzazione.
  • Prestare attenzione a "cosa" viene comunicato, invece, comporta un'automatica collocazione nell'area di studio del messaggio. Il filone estremamente ricco della content analysis trova in Lasswell, infatti, il suo padre fondatore, con studi pionieristici sulle tecniche di persuasione utilizzate durante la prima guerra mondiale. Questa metodologia di ricerca cotninua a rappresentare un'applicazione esemplare dell'analisi del contenuto, pur con tutti i limiti connessi all'adozione di un'approccio basato sul conteggio dei simboli-chiave e sull'assunto implicito di un'univoca interpretazione del messaggio da parte dei destinatari.
  • Prestare attenzione a "chi" è il destinatario del messaggio implica l'assunzione di un focus d'attenzione centrato sul pubblico dei media. GLi studi sull'audience dei media sono incredibilmente cresciuti negli ultimi anni, a testimonianza della centralità di una problematica a lungo ignorata.
  • Infine, prestare attenzione a "quali effetti" vengano attivati nei destinatari significa entrare di forza nel campo di studio degli effetti, che ha attraversato l'intera storia della mass communication research. Gli effetti intenzionali o inintenzionali, diretti o indiretti, a breve o a lungo termine rappresenteranno, infatti, sin dagli inizi, il campo privilegiato degli studiosi alla perenne ricerca di conseguenze attribuibili all'azione dei media.
L'organizzazione del campo di studio, frutto dell'applicazione del modello di Lasswell, continua a rappresentare un utile strumento di lavoro per organizzare la raccolta dei dati e per costruire una prima visione di insieme, come si evince dalla rappresentazione grafica di tale modello (clicca sull'immagine per ingrandirla):
Ma per quanto possa apparire di buon senso, la lista di Lasswell presenta notevoli difetti di omissione, individuati, fra gli altri, da Schulz:

  • I processi comunicativi sono asimmetrici: ci sono un soggetto attivo che emette lo stimolo e un soggetto piuttosto passivo che viene colpito da questo stimolo e reagisce.
  • La comunicazione è individuale, un processo che riguarda innanzitutto singoli individui e che è da studiare su questi individui.
  • La comunicazione è intenzionale, l'introduzione del processo da parte del singolo comunicatore avviene intenzionalmente ed è, in genere, diretta a uno scopo; il comunicatore mira a un determinato effetto.
  • I processi comunicativi sono episodici: inizio e fine della comunicazione sono temporalmente limitati e i singoli episodi comunicativi hanno un effetto isolabile e indipendente.
In altre parole, il modello di Lasswell immagina un comunicatore esclusivamente attivo e un destinatario solo passivo, ignora i ruoli sociali, economici, di genere di entrambi gli interlocutori, immagina la comunicazione come un processo isolato e dedito a un fine preciso, non tenendo conto delle interferenze e dei filtri complessi che ne modificano sempre il senso.

Pur con questi limiti ed omissioni, il modello di Lasswell, tuttavia, si pone come una pietra miliare che segna il punto di partenza di un percorso conoscitivo ancora in corso.


Bibliografia
- BENTIVEGNA S., Teorie delle Comunicazioni di Massa, Laterza, Roma, 2003
- LASSWELL H.D., The Structure and Function of Communication in Society, 1948
- LOSITO G., Tendenze e Problemi della Ricerca Sociale sull'Emittenza, 1988
- SCHULZ W., Ausblick am Ende des Holzweges, Publizistik, 1-2, 1982
- VOLLI U., Il Libro della Comunicazione, Il Saggiatore, Milano, 1994

giovedì 26 marzo 2009

Ok , il prezzo è zero, di Chris Anderson

Nel corso dell'ultimo decennio, abbiamo costruito un'economia online in cui il prezzo di default è zero: niente, nada, nul, null. I beni digitali, dalla musica ai video, passando per Wikipedia, possono essere prodotti e distribuiti senza alcun costo marginale e così, per le leggi economiche, il prezzo è andato dalla stessa parte: a zero. Per la Google generation, internet è la terra del Gratis.

Questo non significa che dal niente le aziende non possano ricavare soldi. Può essere un buon business. Ma come? La minoranza dei clienti che paga sostiene la maggioranza. Qualche volta si tratta di due diversi settori di clienti, come nel modello tradizionale dei media: pochi pubblicitari pagano per i contenuti, così molti consumatori possono ottenerli a basso costo o gratis. E' questo il motore per gli incassi di tutte le più grandi web company, da Facebook e MySpace fino alla stessa Google.

In altri casi, le stesse economie digitali hanno stimolato nuovi modelli di business, come il "Freemium", la versione gratuita supportata da una versione premium a pagamento. Questo modello usa il Gratis come forma di marketing, per mettere il prodotto nelle mani del massimo numero di persone, convertendone solo una piccola parte in clienti paganti.

Con i beni materiali, i campioni devono essere distribuiti a piccole dosi: ci sono costi reali da pagare. Nel caso dei bit, invece, le versioni gratuite sono troppo economiche per essere conteggiate e possono essere diffuse ovunque. Questo spiega anche come mai il tuo eccentrico commercialista si è trasformato nel gratuito e virtuale TurboTax, l'agente di borsa è ora un sito di trading e l'agenzia di viaggi è ora un venerato motore di ricerca.

Tutto ciò ha funzionato bene in un'economia in crescita ma quest'anno, per la prima volta dal 2001, la marea complessiva di investimenti e pubblicità quasi sicuramente scenderà. Che cosa comporta questo per il modello economico del Gratis?

Dal punto di vista del consumatore, dovrebbe solo aiutare. Dopotutto, quando non si hanno soldi, zero dollari sono un buon prezzo. Aspettatevi che la tendenza verso il software open source (che è gratuito) e gli strumenti di produttività basati su web come Google Docs (anche loro gratuiti) acceleri. I computer più cool e più economici di questi tempi sono i netbook, che vengono venduti a 250 dollari e viaggiano con versioni gratuite di Linux o con super economiche vecchie versioni di Windows. Chi li compra non carica Office pagando a Microsoft centinaia di dollari per il privilegio. Usa piuttosto i suoi equivalenti online.

Queste stesse persone ascoltano musica gratuita su Pandora, cancellano l'abbonamento alla pay tv per guardare video gratuiti su Hulu e uccidono le linee telefoniche domestiche in favore di Skype. Il web è diventato il più grande negozio della storia e tutto è in saldo al 100 per cento.

E le aziende che cercano di costruire un business online? Il modello standard di business è la pubblicità. Un servizio popolare avrà moltissimi utenti e qualche sponsor pagherà i conti: Ma sono emersi due problemi: il prezzo della pubblicità online e il numero di clic. Facebook è un servizio immensamente popolare ma è anche una piattaforma pubblicitaria inefficace. Se pure ci si riesce a immaginare quale sia il giusto annuncio pubblicitario da presentare accanto alle foto della festa di una liceale, lei e i suoi amici non ci cliccheranno mai sopra. Non stupisce quindi che le applicazioni di Facebook incassino meno di un dollaro per 1000 view (in confronto ai 20 dollari circa dei grandi siti d'informazione). Google ha costruito un motore economico invidiabile grazie ai suoi annunci di testo mirati, ma i siti sui quali girano raramente diventano ricchi. Ospitare gli annunci di Google Adsense ai lati del tuo blog, non importa quanto sia popolare, non ti pagherà neanche il minimo sindacale per il tempo che ci passi sopra. Parlo per esperienza.

E il trucco più vecchio, ovvero far pagare per i tuoi servizi e beni? E' qui che si vedranno le vere novità in un'economia in crisi. E' tempo che gli imprenditori innovino, non solo con prodotti nuovi, ma con nuovi modelli di business.

Pensate a Tapulous, il creatore di Tap Tap Revenge, un popolare programma di giochi musicali per l'iPhone. Come in Guitar Hero o Rok Band, le note piovono sullo schermo e tu le devi prendere a ritmo di musica. Milioni di persone hanno provato la versione gratuita e una porzione notevole di loro era pronta a sborsare dei soldi quando Tapulous ha offerto delle versioni a pagamento costruite attorno a band particolari, come i Weezer e i Nine Inch Nails, oltre a canzoni add-on.

Ma estrarre un modello di business dal Gratis non è sempre facile, specialmente quando i tuoi utenti si aspettano di non pagare nulla. Pensate a Twitter, il servizio di messaggistica (gratuito) da 140 caratteri da cui la gente aggiorna il mondo su quello che sta facendo, un frammento alla volta, stile haiku. Dopo avere conquistato il mondo, o perlomeno il suo lato geek, ora si trova ad avere incassato appena il denaro per coprire i costi per la connessione. L'anno scorso ha assunto un guru dei ricavi perché gli trovasse un modello di business e ha annunciato che presto rivelerà la propria strategia. Le speculazioni al riguardo variano dal chieder soldi alle aziende per avere i propri tweet consigliati ai clienti (che è un po' come diventare amici di Burger King su Facebook) alla certificazione dell'identità per evitarne l'usurpazione. Un anno fa questo importava poco: il modello di business era "mettere da parte un bel gruzzolo per l'uscita dalle scene e la pensione, preferibilmente in cash". Ma ora le porte d'uscita sono chiuse.

Questo significa che, in un'economia di crisi, il Gratis batterà in ritirata? Probabilmente no. I fattori psicologici ed economici rimangono più che mai buoni. I costi marginali di qualunque cosa sia digitale crollano del 50 per cento ogni anno, rendendo la valutazione dei prezzi una corsa verso il fondo, e il Gratis esercita il suo potere come non mai sulla mente dei consumatori. Significa però che "gratis" non è abbastanza. Deve andare in coppia con "a pagamento". Come i rasoi gratuiti di King Gillette avevano un senso in termini di business solo se abbinati a lamette costose, così gli imprenditori di web di oggi non devono inventarsi solo prodotti che la gente ama, ma anche prodotti per cui la gente pagherà. Gratis sarà il prezzo migliore, ma non può essere l'unico.


L'immagine appartiene a:
- www.rangit.com

Il contributo è tratto da:
- Wired, No. 2, Aprile 2009

martedì 17 marzo 2009

Claude Shannon e Warren Weaver - La Teoria Matematica della Comunicazione

La teoria matematica della comunicazione (conosciuta anche come modello matematico-informazionale) è stata ipotizzata sul finire degli anni Quaranta da due ingegneri statunitensi, Claude Shannon e Warrern Weaver, per individuare il modello di trasmissione ottimale dei messaggi. I due studiosi erano interessati a limitare i danni connessi a un processo di trasferimento di informazioni: una conversazione telefonica, ad esempio, corre il rischio di veder perdere numerose informazioni a seguito di scariche presenti sulla linea. Le possibili fonti di rumore, in grado di produrre una dispersione di informazioni, rappresentavano lo specifico oggetto di studio di Shannon e Weaver. Questo è lo schema da loro tracciato (clicca sull'immagine per ingrandire):














E' evidente che il modello comunicativo sotteso alla teoria ipodermica e alla teoria matematica dell'informazione coincide largamente: vi è un emittente che costruisce e veicola un messaggio (lo stimolo nella teoria ipodermica) che deve arrivare al destinatario, consentendo l'attivazione di una risposta.
Nel descrivere lo schema del modello matematico-informazionale della comunicazione, Eco sottolinea come sia possibile sempre rintracciare

una fonte o sorgente dell'informazione, dalla quale, attraverso un apparato trasmittente, viene emesso un segnale; questo segnale viaggia attraverso un canale lungo il quale può venire disturbato da un rumore. Uscito dal canale, il segnale viene raccolto da un ricevente che lo converte in un messaggio. Come tale, il messaggio viene compreso dal destinatario1.


Questo schema, continua ancora Eco, può essere applicato a una comunicazione tra macchine, tra esseri umani e tra macchine ed esseri umani. Del tutto estraneo al processo è il momento dell'attribuzione del significato al messaggio da parte del ricevente: esso è semplicemente dato una volta per tutte a tutti i soggetti.
La semplicità e la grande versatilità di un modello fondato sul rapporto diretto tra emittente e destinatario sono alla base del successo che ha accompagnato per anni molto delle letture e delle analisi condotte sul rapporto tra media e individui. Se si considera il modello matematico-informazionale una sorta di perfezionamento di quello proprio della teoria ipodermica, si può intuire tutto il fascino di una formulazione ben congegnata sul piano formale e in grado di dare risposte semplici, sia pure poco argomentate. In realtà, qualsiasi modello o teoria che ponga alla base delle sue riflessioni una dinamica di rapporto tra i media e gli individui quale quella descritta da simili impianti teorici si condanna all'assoluta irrilevanza conoscitiva. Pur se di sicuro fascino e di larga applicabilità, la teoria ipodermica e la teoria matematica dell'informazione non possono che continuare a rappresentare il pezzo più pregiato in una sala di esposizioni dedicata all'archeologia del presente.

1 Eco U., Estetica e Teoria dell'Informazione, Bompiani, Milano, 1972.


Il contributo è tratto da:
- Bentivegna S., Teorie delle Comunicazioni di Massa, Laterza, Roma, 2003

mercoledì 11 marzo 2009

La Teoria Ipodermica (Bullet Theory)

La teoria ipodermica, o bullet theory, fa riferimento a un modello comunicativo che si caratterizza per una relazione diretta e univoca che lega lo stimolo alla risposta. Tale modello si configura come il primo tentativo di individuazione del rapporto esistente tra media e individui. E' un modello di grande semplicità che rispondeva all'esigenza conoscitiva di stabilire un nesso, anche estremamente semplice, tra il momento della veicolazione del messaggio e quello della fruizione.

Unanimemente collocata dagli studiosi nella fase iniziale delle riflessioni e degli studi sulle comunicazioni di massa, la teoria ipodermica ha goduto di uno strano destino. Definita dai Lang1 come una teoria che "never was", a causa della profonda estraneità mostrata dagli scienziati sociali, la teoria ipodermica è stata più volte recuperata, laddove si voleva enfatizzare il carattere massificante e manipolatorio delle comunicazioni di massa.

Con la teoria ipodermica, il potere dei media sembra non avere ostacoli nel voler imporre la volontà di chi li governa agli individui della massa. I postulati su cui essa si fonda sono i seguenti:

4) i messaggi veicolati sono ricevuti da tutti i membri nello stesso modo

3) gli individui sono indifesi di fronte al potere dei media

2) i messaggi veicolati sono potenti fattori di persuasione, in grado di introdursi all'interno degli individui con le stesse modalità di un ago ipodermico

1) il pubblico è una massa indifferenziata, all'interno della quale si trovano individui in una condizione di isolamento fisico, sociale e culturale

Gli individui, dunque, risultano soli, privi di reti di protezione, esposti senza scampo agli stimoli esercitati dai media.
In questo vuoto, i messaggi veicolati dai mezzi di comunicazione hanno gioco facile a colpire con un proiettile magico gli individui ad essi esposti. D'altro canto, non essendovi barriere a fermare la traiettoria del proiettile, gli individui risultano indifesi e preda dei messaggi mediali, che vengono ricevuti in modo standard da tutti i destinatari. Ciò che sorprende nella formulazione di questo modello è l'assoluta semplificazione del rapporto comunicativo, ridotto a mero automatismo quale quello che consegue alla somministrazione di uno stimolo al cane di Pavlov. Nessuna traccia, invece, di una qualche forma di potere ascrivibile ai destinatari, ridotti a mere comparse sulla scena organizzata e gestita dalle istituzioni mediali.

1 Lang K., Lang G., Mass Communication and Public Opinion,1981


Il contributo è tratto da:
- Bentivegna S., Teorie delle Comunicazioni di Massa, Laterza, Roma, 2003

L'immagine appartiene a:
- www.meltinpotonweb.com

martedì 3 marzo 2009

Maxwell McCombs e Donald Shaw - La teoria dell'Agenda Setting

La teoria dell'agenda setting si inserisce negli studi mediali socioscientifici, ossia in quell'ambito di ricerca che tende ad analizzare gli effetti che i mezzi di comunicazione producono nei confronti del pubblico.

Secondo la teoria dell'agenda setting, sviluppata da McCombs e Shaw nel 1968, i mass media costruiscono un'agenda di temi per l'opinione pubblica attraverso l'enfasi assegnata a determinati ambiti. Secondo i due studiosi esiste un'evidente correlazione tra il grado di copertura che i mass media adottano per gli eventi che accadono e la rilevanza che le persone attribuiscono agli stessi eventi.

Siamo lontani dalle teorizzazioni di un'influenza persuasoria dei media nei confronti del proprio pubblico, e ciò emerge direttamente dalle parole dei due autori:


L'ipotesi dell'agenda setting non sostiene che i media cercano di persuadere.
[...] I media, descrivendo e precisando la realtà esterna, presentano al
pubblico una lista di ciò intorno a cui avere un'opinione e discutere. L'assunto
fondamentale dell'agenda setting, è che la comprensione che la gente ha di gran
parte della realtà sociale è mutuata dai media.

Shaw, D. L. & McCombs, M. (1977). The Emergence of American Political Issues: The Agenda-Setting Function of the Press. St. Paul: West


Per applicare empiricamente la teoria dell'agenda setting, è utile prendere in considerazione, fra le tante, una ricerca pubblicata su www.agendasetting.com, riguardante la copertura mediale di due eventi similmente catastrofici e tragici come lo tsunami nell'Oceano Indiano del dicembre 2004 ed il terremoto in Pakistan dell'ottobre 2005, e l'influenza che essi hanno avuto nell'opinione pubblica.

Secondo la ricerca, vi è stata una decisiva differenza fra la copertura mediale riservata allo tusnami e quella assegnata al terremoto. Lo tsunami ha ricevuto infatti un'attenzione decisamente ampia dai media dei paesi analizzati, che si è risolta in un altrettanto ampio sostegno economico delle audience; il pubblico, al contrario, non ha percepito allo stesso modo il bisogno di aiuto richiesto dalle regioni afflitte dal terremoto. E ciò emerge dal fatto che, in Germania ad esempio, lo tsunami ha ricevuto 666 report nei tre canali televisivi analizzati, contro i 66 riscossi dal terremoto. A questi 666 report sono corrisposti 178 milioni di dollari in donazioni private, mentre le regioni pakistane ne hanno collezionati soltanto 8 milioni.

Nell'immagine di seguito, il grafico relativo alla copertura mediale dei due eventi mostra chiaramente le differenze di trattamento.

mercoledì 25 febbraio 2009

Crisi globale e comunicazione, Intervista ad Alberto Abruzzese

Sentiamo ripetere ogni giorno che l’attuale crisi economica sta avendo effetti devastanti sulla produzione industriale. Quale dovrebbe essere la strategia di reazione da parte un’azienda che vuole salvaguardare la propria immagine ma sa già di andare incontro ad una forte riduzione del fatturato?

• Questa congiuntura – crisi di fatturato con tutte le sue ricadute sociali sulla sfera pubblica e privata del lavoro e della qualità della vita – è forse la grande occasione per la cultura di impresa di onorare un appuntamento con la società che l’impresa, dopo il suo avvento e ruolo nella costituzione dei sistemi moderni, non ha mai davvero realizzato ad onta del gran suo dire su trasparenza di bilancio, politiche ecologiche, responsabilità etica (e altre “buone intenzioni” che avrebbero dovuto essere assunte come realizzazione di ciò che era stato promesso nel passato e non come innovazione in prospettiva del futuro). A mio avviso la cultura d’impresa non è ancora riuscita a ridefinire il proprio ruolo in termini di soggetto politico e non solo economico (volontà di prendersi a carico il mondo e non delegarlo alla cura degli altri, lasciandosi per sé la certezza del profitto). Molto spesso l’impresa chiede allo stato e alle istituzioni pubbliche aiuti o mediazioni o garanzie che si rendono necessarie a seguito non solo di suoi stessi errori ma anche della sua tendenza a scaricare altrove il lavoro di idee, di ricerca e di formazione di cui dovrebbe farsi carico in prima persona.


Tra tutte le voci di bilancio, quali sono quelle che in una simile situazione vengono ridotte per prime?


• Credo che la logica con cui le aziende tagliano le loro voci di bilancio derivi dai rapporti di potere e gerarchici tra chi la governa al suo interno e molto spesso anche dall’esterno (corporazioni del management, lobbie, clientele, familismo, ecc): i settori protetti saranno così meno penalizzati dei settori deboli e indifesi. Le misura anti-crisi saranno piegate ad interessi di parte invece che agli effettivi interessi dell’impresa. Penso che in molte aziende prevalga comunque l’idea di ridurre le spese in settori che le routine della cultura manageriale in genere considerano come un lusso. Comunque penso che la tentazione sarà quella di andare esattamente in direzione opposta a quella che ci si dovrebbe augurare per le ragioni di cui ho detto nella risposta precedente.


Spesso gli investimenti in comunicazione vengono rimodulati per far fronte a periodi difficili: crede che questa scelta possa avere ricadute negative per un brand?


• Facile rispondere da creativo: spendiamo di meno ma spendiamo meglio, e usciamo dalla tronfia monumentalità della comunicazione al tempo delle vacche grasse (questa dispendiosa rappresentazione di se stesse, per le imprese grandi è stata una possibilità, mentre per le piccole è stata una frustrante impossibilità e quindi una mortificazione della loro fantasia e delle loro potenzialità). Mi rendo conto tuttavia che la questione è complessa: il creativo è pagato da chi rischia e chi rischia non spende volontà e intelligenza per diventare creativo. Sono convinto comunque che la comunicazione ha bisogno di un contenuto, se ora bisogna spendere senza sprecare, allora affrettiamoci a trovare contenuti. E le strutture che non hanno contenuti o si trasformano dall’interno per trovarli o pagano chi sa trovarsi o costruiscono reti di solidarietà sulla innovazione dei contenuti.


L’Economist propone la sua tesi: i marchi che investono in pubblicità nei periodi
di recessione, mentre i competitors tagliano, possono aumentare il segmento di mercato e il ritorno sull’investimento ad un costo più basso in periodi economici favorevoli. È d’accordo?


• L’impresa significa rischio calcolato, se si calcola di avere denaro da investire sulla comunicazione mentre altri non investono e di poterlo fare senza andare in rovina, allora ben venga. Tuttavia, se investo in comunicazione ora come investivo prima e persino di più, può capitarmi, quando si riaprano i giochi della concorrenza, di essere impotente di fronte a chi ha risparmiato sulla comunicazione ma ha ridefinito processo produttivo e contenuti.


Pensa che in questa fase aziende di paesi diversi debbano comportarsi in modi diversi oppure che la strategia di reazione debba/possa essere globale? Le reazioni vanno diversificate in base a settori di produzione diversi?


• Il tempo attuale della globalizzazione, che a ragione delle reti digitali è assai diverso dai tempi lunghi della mondializzazione capitalista occidentale, è caratterizzato da una stretta interdipendenza tra flussi globali e emergenze locali. Dunque oggetti di consumo, bisogni, desideri, servizi, esperienze che vivono in modo glocal (forme di vita in cui la diversità non è una qualità statica, ma al contrario naviga in forme metamorfiche instabili, sempre di nuovo rinegoziabili). La diversificazione degli obiettivi, delle procedure necessarie a realizzarli, ha bisogno culture del mutamento permanente, assai più che di sistemi in cerca di stabilità.


Come crede che debba cambiare la comunicazione delle aziende in un periodo di paura per il futuro come questo che stiamo vivendo?


• L’impresa, come la politica, hanno sempre ragionato a partire dal presupposto della felicità e dalla rimozione della paura. C’è un gran lavoro autocritico che l’impresa dovrebbe fare sulla tradizione moderna dei suoi presupposti etici, estetici e politici. Senza fare questo lavoro (gli uffici studi o fondazioni o altro investono invece in valori storici, celebrativi, tradizionali) non sapremo mai come cambiare la comunicazione. Certo è che non possiamo fare comunicazione per rimuovere la paura di questi anni.


L'articolo è tratto da:
- Xister

L'immagine appartiene a:
- www.moltobene.ilcannocchiale.it

venerdì 20 febbraio 2009

Il momento profetico della scuola: la tecnologia come strumento di formazione


L'insegnamento che ci danno le forme più moderne di interazione digitale on line ci inducono a rivedere le regole tradizionale della comunicazione: a sostenerlo con convinzione è Elisabetta Mughini, dell'Agenzia Nazionale per lo Sviluppo dell'Autonomia Scolastica, che nel suo intervento ricorda come grazie alla rete si stia oggi sviluppando una nuova filiera di conoscenze: basta riflettere su come YouTube stia dando spazio a filmati di altissima definizione e su come, quindi, il fruitore si sia trasformato da consumatore a produttore di contenuti. In questo modo le nuove tecnologie ci portano ad un potenziamento della nostra memoria. Che ne esce, infatti, rigenerata.
YouTube è uno strumento che esprimendo memorie ed emozioni riesce a mettere a nudo i sentimenti di chi ne è protagonista. Tanto che Mughini si pone un interrogativo, che però sembra anche una risposta:

Non è che chi produce un video lo fa semplicemente per comunicare la propria solitudine? E per farlo sceglie una strada particolare: cerca di entrare nel profondo della comunicazione esprimendo allo stesso tempo sia un concetto di stabilità, derivante dalla certezza, sia un altro di fluidità.


Un modo, in definitiva, per aggiornare e rivedere regole. Il riferimento è sempre al video creato con la webcam, ossia

l'emblema dello smantellamento della sicurezza che porta dritto alla ricerca dell'omologazione. E gli artefici di questo modello non possono che essere i giovani: in un contesto sociale così particolare sperimentando modalità, competenze e capacità espressive mettendo in difficoltà le figure istituzionali di riferimento come la famiglia e i docenti.


Il problema è che la scuola non sembra voler accettare questa situazione, questo ribaltamento dei ruoli:

In realtà il classico modello di trasmissione del sapere, sino ad oggi mai messo in discussione, dovrebbe essere rivisto da quelle stesse figure (docenti, genitori, esperti ecc.) che da sempre sono state destinate a mediare.


Per la docente universitaria fiorentina la scuola ed in generale l'istruzione è ormai immersa in un momento profetico, di prospettiva, con il docente che per forza di cose sarà costretto a rivedere il suo ruolo educativo.
Sbaglia però chi pensa che per insegnare bisogna essere attrezzati nello studio dell'informatica: la necessità per chi insegna, ma anche per chi apprende, è quella di impadronirsi del primato della conoscenza attraverso
la sperimentazione diretta: basta pensare che sino ad oggi i giornali, la televisione, il video sono stati spesso fuori dalla classe. Senza essere quasi mai sperimentati direttamente.


L'emblema del cambiamento può essere allora espresso da uno strumento di comunicazione formativa classico ma allo stesso tempo iper-tecnologico:

Basti pensare alla lavagna multimediale, che rappresenta l'interfaccia alla fonte diretta: così come la utilizziamo in diefinitiva dall'Ottocento ad oggi.


L'intervento è tratto da:
- Media Duemila, dicembre 2008/gennaio 2009, p. 32


L'immagine appartiene a:
- Wikipedia

mercoledì 4 febbraio 2009

Alberto Marinelli e le tre parole chiave del mondo digitale: mobile, network e society.


I media cambiano le relazioni, ma anche il modo di conoscere le cose e di prestarvi attenzione. E' su questi argomenti che si focalizza l'intervento di Alberto Marinelli, che insegna Teoria e tecniche dei nuovi media all'Università "La Sapienza" di Roma. Senza mai dimenticare la sua estrazione sociologica Marinelli si è soffermato sulle conseguenze del rapporto osmotico che i giovani hanno con il digitale:

Per spiegare la cultura giovanile personalmente sto lavorando sul "Multitasking": lo studio sul chi fa e sa tante cose insieme è infatti fondamentale per capire che oggi dobbiamo competere con ragazzi che mentre gli parli chattano, telefonano, scrivono, eccetera. Si tratta in larga prevalenza di giovani che vivono esperienze molto più mediatiche che immediate.


Per Marinelli tra le caratteristiche del Multitasking (che letteralmente significa multiprocessualità) c'è quella di riuscire a

spiegare la differenza tra "agricoltori" e "cacciatori": i primi sono quelli che vengono formati a scuola, dove si getta il seme e poi con il tempo si verifica il risultato in attesa della sua maturazione. I "cacciatori", invece, gestiscono il mondo digitale.


Per Marinelli le parole chiave per capire questo percorso sono quindi tre: mobile, network e society.

Sul mobile c'è da dire che erroneamente si pensa che possa raggiungere ogni luogo. Invece la vera novità introdotta è nel dispositivo personale, oltre che dinamico. Sul secondo termine, network, bisogna sottolineare che sul mercato esiste una grande quantità di potenziali legami elettivi, che come Internet hanno una durata effimera e quindi temporanea: se questo è il quadro di riferimento, è normale che in classe, dove prevalgono legami subiti e non scelti volontariamente, i ragazzi si annoiano. Per quanto riguarda, infine, la dimensione sociale è evidente che ormai prevalga un'appropriazione di tipo individuale.


E sul singolo individuo che interagisce con l'Ict e con tutto quello che è digitale, c'è ancora molto da scoprire:

Negli Stati Uniti c'è un grande dibattito sull'utilizzo dei nuovi media, soprattutto per capire gli effetti sulla psiche ed il cervello. Sinora le risposte che danno i ragazzi ad un mondo non stabile, ma fluido, sono prevalentemente dettate da un'attenzione "parziale continua". Direi anche un'attenzione tutt'altro che formale.

L'intervento è tratto da:
- Media Duemila, dicembre 2008/gennaio 2009, p. 32

martedì 3 febbraio 2009

MEDIAdiet.COM. Una ricerca sul consumo mediale degli studenti di Scienze della Comunicazione

Qual è il rapporto degli studenti di Scienze della Comunicazione con i media? Quali sono le loro abitudini di fruizione? Come vorrebbero essere informati dalla propria Facoltà?
Questi gli interrogativi ai quali ha tentato di rispondere MEDIAdiet.COM, una ricerca realizzata dagli studenti del Corso di laurea specialistica in Teorie della comunicazione e ricerca applicata ai media, della Facoltà di Scienze della Comunicazione della Sapienza di Roma, coordinata dalla cattedra di Gavrila/Morcellini in Media e Linguaggi Digitali.

Di seguito, il link utile per consultare o scaricare in pdf una sintesi del lavoro svolto:
- MEDIAdiet.COM

martedì 27 gennaio 2009

lunedì 26 gennaio 2009

La metropoli incantata. Libro e teatro come pubbli-città, di Mario Morcellini

Il libro fa spettacolo. Si sta profilando, dunque, e per molti versi già c'è, un fenomeno contrastante con le previsioni dei catastrofisti culturali. L'aspetto innovativo è che fa spettacolo il libro-pubblico, inteso come deposito di stimolazioni non solo personali, la cui forza deriva dalla tradizione ma anche dal suo incrocio con la sensibilità dei moderni. Più esattamente, è il testo al centro di questo nuovo Rinascimento, messo in scena nelle piazze d'Italia, quasi a unificare nella percezione collettiva la rappresentazione teatrale e la lectura Dantis vissuta come evento. Se questa non è rivoluzione...

Il tempo-libro. Leggere i nuovi significati della lettura
Città da sfogliare, lo slogan recente di una fiera letteraria che ha collegato diverse città, è al tempo stesso realistico e disegna una tendenza. Il radicale cambiamento nel valore della lettura consiste nel superamento della sua dimensione esclusivamente intima. Un consumo quasi inconfessabile. Nelle ultime righe del prologo a Il nome della rosa, descrivendo le consolazioni dell'uomo di lettere, Eco attribuisce a Tommaso da Kempis la seguente divisa: "In omnibus requiem quaesivi, et nusquam inveni nisi in angulo cum libro". Ora se c'è un dato certo nei nostri tempi è che la lettura esce dall'angolo (Morcellini, Gavrila in Morcellini 2005). Mentre in passato il libro sembrava troppo spesso il simbolo del ripiegamento e di una vocazione alla solitudine, spesso costruita sotto il peso di sconfitte pubbliche o private, ai moderni l'esperienza della lettura sembra troppo potente per trincerarla solo dentro la fortezza dell'individualismo. Cambia così la natura del libro: da presidio dell'individualismo, a risorsa intersoggettiva e sociale. E' in questa alchimia di valori personali e pubblici che si determina il nuovo significato della cultura - qualunque sia il suo format produttivo - nello spazio urbano.
Trasformata in spazio da leggere e da riscoprire, la città si presta ancora di più alla produzione di sensazioni, di emozioni, di miti, di suoni e di immagini inedite.


L'uomo d'oggi va sempre più alla ricerca di nuove possibilità di identificazione e di espressione della propria personalità, riscoprendo nella lettura una diversa possibilità di mettersi in discussione e sincronizzare lo spirito della socializzazione - proprio soprattutto dei giovani - con l'anima della cultura.
E' così che la città si pone come un display a caratteri mobili di quel che s'intravede oltre l'esperienza della vita quotidiana, trasformandosi in scena dove i protagonisti si confondono con gli spettatori, tutti coinvolti nel leggere e nel farsi leggere tra le righe del nuovo spazio urbano "sfogliato". Il libro steso cambia volto entro la metropoli che lo rimette al centro dell'agorà: non più una fatica, un dovere, ma una passione riscoperta. Lo conferma anche il rapporto Censis del 2005, che vede l'abitudine e la noia quali spiegazioni per la lettura, sostituite da indicatori più espressivi della modernizzazione dei comportamenti culturali, come la passione (dal 31,3% nel 2001 al 47,1% nel 2005), l'interesse (dal 33,8% al 38,5% nello stesso quinquennio) e il bisogno di svago (dal 37,9% al 39,6%).
La lettura, associata intuitivamente, fino a poco tempo fa, alla categoriadei consumi d'élite, quasi "interdetta" per la maggior parte degli italiani, all'improvviso, grazie anche all'intuizione di alcuni manager illuminati e a un nuovo clima culturale, diventa protagonista del dibattito pubblico oltre che esempio illuminante di un rinnovato marketing culturale.

Il proscenio metropolitano alla riscoperta del teatro
Anche per il teatro bisogna saper coltivare una lettura audace dei dati: l'incremento dell'interesse del pubblico, concretamente leggibile dall'aumento della spesa del pubblico, che supera il 3% di variazione nel primo semestre del 2007 rispetto allo stesso periodo del 2006 (SIAE 2007). Colpisce il Wpaniere" entro cui il trend si manifesta: mentre in passato capitava qualche anno di impennata, ma gli andamenti della lettura, del teatro, delle mostre, dei musei e del cinema presentavano risultati altalenanti, da qualche anno si afferma "il pacchetto": questi modelli di consumo culturale tendono a presentare le stesse caratteristiche di incremento quantitativo.


La fruizione di quella cultura che si autodefiniva d'élite conosce un processo di significativo allargamento delle sue basi sociali, imperniato proprio sullo smantellamento dei confini tradizionali del pubblico del teatro. E se questo fenomeno, come abbiamo visto, coinvolge anche l'esperienza della lettura, è difficile non scorgere la matrice accomunante: il recupero del bisogno di sognare, ma anche un'appropriazione diversa del rapporto tra realtà e rappresentazione, facendo dell'andare a teatro o della lettura simboli di una società più ricca e al tempo stesso democratica, in cui l'esperienza diretta della diversità non contrasta con la voglia di comunità.
La passione per il teatro e per la lettura, luoghi tradizionalmente deputati a coniugare realtà e immaginazione, diventano elemento di condivisione e aggregazione. I moderni, alfabetizzati ormai alla scuola di Internet, continuano i percorsi virtuali, passando dalla Rete delle Reti alla rete di relazioni metropolitane e culturali, altrettanto rappresentative per la costruzione delle comunità immaginate.
Nella nuova modernità dei linguaggi, la parola - scritta o messa in scena - si riveste di significati profondamente trasversali alle varie evoluzioni dei mezzi di comunicazione, riacquisendo il suo grande valore di depositario di forme organizzate di memoria individuale e collettiva. Persino di quella tradizione che fa della stessa città oggetto di riflessione e di ispirazione poetica. La città quale mondo nuovo diventa lo spazio più aperto alla diffusione culturale e letteraria. Le moderne metropoli si ridisegnano, dunque, quali luoghi privilegiati per la manifestazione del fenomeno collettivo tornando a diventare luoghi di espansione di una nuova socializzazione culturale.
A ciò si aggiunge una singolare e innovativa geografia della fruizione del teatro, che vede finalmente ridimensionate le barriere tra il Nord e il Sud e una straordinaria diversificazione nella galleria dell'offerta, con forme di rappresentazione "minori" e "periferiche". non meno importanti del punto di vista del rinnovamento espressivo.

L'intervento è tratto da:
- Treccani Scuola

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domenica 25 gennaio 2009

Cosa cambia nella comunicazione in Italia, di Mario Morcellini

Cosa c'è di nuovo nei fenomeni e nelle pratiche della comunicazione oggi? Rispondere a questa questione comporta l'elaborazione di una vera e propria mappa culturale del presente, ovvero di una tipologia dei caratteri contraddittori della modernità comunicativa. Alcuni nodi critici sono potentemente sotto i nostri occhi, a patto che si sappiano leggere le tendenze e i significati culturali e comunicativi che esibiscono i comportamenti degli uomini moderni.


1) L'aumento della qualità nel consumo dei media

E' una formula coraggiosa che non si trova in letteratura, dove invece si tende ad esagerare il contrario, cioè la perdita di qualità, il kitsch, il trash; spesso gli studiosi tendono a sopravvalutare gli aspetti negativi del tempo in cui vivono. Un punto di svolta rispetto al passato è l'aumento di qualità nel comportamento comunicativo degli italiani. Cercheremo di capire cosa significa, perché i fenomeni nuovi non sono facilmente leggibili all'interno di uno schema teorico unificante che elimini le contraddizioni. Elementi di incompatibilità sono inevitabili in una società che muta: quando il mondo cambia non lo fa in modo lineare, ma dando segni ambigui e contraddittori. Si tratta di un cambio di paradigma, il soggetto non appare più sottoposto alla comunicazione, come un atomo manipolato dal potere dei media. Certo, non si può ritenere che il potere dei media sia oggi venuto meno, ma le evidenze del nostro tempo dimostrano in modo indiscutibile la crescita di fenomeni di autonomia e competenza da parte dei consumatori di comunicazione, prima considerati masse, poi pubblici, alludendo ai loro dislivelli, e infine target, termine utilizzato dalla pubblicità che aiuta a vedere differenze non solo di appartenenza sociale, ma di opinioni, di climi e di atteggiamenti delle persone.


2) Graduale superamento del "generalismo" nei media

L'aumento di qualità comporta un progressivo declino del generalismo. I nostri studi (ma anche ricerche e letture riconducibili ad altre scuole) concordano sul fatto che i media di massa capaci di esercitare un impatto omogeneo sulle persone stiano scomparendo. Mezzi tradizionali come i giornali, la televisione, la radio sono ormai avviati verso un graduale ma inesorabile declino. Non un precipizio, non la catastrofe, ma un progressivo allontanamento dal centro della scena. Per la tv si tratta di un cambiamento epocale perché ha rappresentato per gli italiani il dispositivo privilegiato di socializzazione alla modernità, ed ancora oggi - pur in decremento di ascolti e di significatività sociale - resta comunque il mezzo più espressivo per comprendere il carattere degli italiani, la loro dimensione ipercomunicativa, così come resta il mezzo più importante per capire le società democratiche dell'occidente.


3) Media vecchi e nuovi tra rottura e continuità

Nella fase di elaborazione di quelle che chiamiamo nuove tecnologie, all'epoca nuovissime ed oggi medie, prevaleva un aspetto di discontinuità: sembrava che il computer, la rete e infine la rete delle reti, internet, rappresentassero una censura drastica, di natura linguistica, espressiva, generazionale rispetto alle vecchie tecnologie, e che tv, radio, giornali e cinema fossero incompatibili con questo nuovo ambiente comunicativo. Invece, il modo in cui è avvenuta la reciproca resa dei conti tra generalismo e nuove tecnologie fa capire che prevalgono gli aspetti di continuità: non c'è differenza di contenuti tra media analogici e digitali dal momento che gli uomini recano con sé il proprio codice culturale, permettono il nuovo con le parole vecchie, contaminano le nuove manifestazioni comunicative delle proprie abitudini. La compenetrazione tra vecchi e nuovi media esorcizza ogni tentazione di nuovismo e ci dice chiaramente che, per comprendere la comunicazione, non basta studiare le nuove tecnologie. Vecchi e nuovi media si presentano come una piattaforma sostanzialmente condivisa, persino tra le comunità colte.


4) Fine dell'euforia tipica dei tempi della rete

Questo elemento è stato in larga parte ignorato dagli studiosi. Fino a pochi anni fa tutti i sociologi avevano immaginato che le sorti dell'avvento delle nuove tecnologie sarebbero state caratterizzate dalla rapidità, dalla sostituzione dei fondali culturali che licenziano il vecchio, senza compenetrarlo. E invece osserviamo che non è successo che le vecchie tecnologie e i vecchi contenuti siano stati eliminati. Al contrario, è avvenuto uno stop congiunturale dell'evoluzione della rete, nei termini in cui lo ha definito Lamborghini. Internet non corre poi così veloce e non sta diventando il motore del cambiamento, né si propone come elemento sostitutivo rispetto alla centralità dei vecchi media. Una delle ipotesi avanzate in passato era che internet fosse centrale dal punto di vista delle chance sociali, che dispensasse generosità e liberalità a tutti gli altri segmenti della comunicazione. Ma non è successo anche per colpa di politica e imprese: queste, in particolare, tardano a capitalizzare il valore della tecnologia come motore di cambiamento.


5) La stanchezza dei contenuti mediali del generalismo e della tv in particolare

Il fatto che la televisione innovi troppo poco è un fenomeno che preesiste rispetto alla crisi del generalismo. Lo testimonia la fortuna dei reality nel nostro Paese. Una certa stanchezza la mostra l'informazione, così come una scarsa capacità di restituire i contenuti sociali. Si pensi anche a come la tv racconta l'Università in questo delicato periodo di fine 2008, attraverso stereotipi e banalizzazioni di questioni altrimenti ben più complesse. Si sta spostando il baricentro della creatività dei media e dei grandi contenuti della comunicazione. Da oltre un decennio la televisione non sembra offrire nulla di nuovo. Paradossalmente l'ultima novità è rappresentata dal Grande Fratello, mentre la creatività e le culture giovanili si muovono verso altre direzioni. I giovani sono in fuga dal generalismo che non riesce a dare risposte alla loro complessa soggettività.


6) Nascita del terzo polo televisivo "di fatto"

Infine, la nascita del terzo polo televisivo è stata una delle più generose polemiche culturali che si sono avute negli ultimi 20 anni. Personalità come Costanzo o Santoro hanno provato in Italia a rompere il duopolio, cioè a puntare su un'offerta comunicativa alternativa ai network esistenti ma pur sempre nel solco del lessico e della piattaforma televisiva. Questo genere di iniziativa ha inesorabilmente fallito. Il terzo polo, l'alternativa all'esistente, ha cominciato a delinearsi solo con l'arrivo sul mercato di un soggetto industrialmente dotato come Sky. Da ogni punto di vista, però, l'impatto di questo nuovo soggetto si presenta molto più coriandolizzato, perché si tratta di una grande tastiera.
Osservando l'insieme del pubblico e l'attenzione dei media nel racconto del fenomeno Sky, viene confermato l'ipotesi per cui la fortuna di un medium è decisa soprattutto da quel fattore che tante volte abbiamo chiamato il "rimando multimediale": è questo aspetto metacomunicativo della comunicazione che decreta il successo di alcune avventure del settore.
Ebbene Sky è stato un fenomeno che ha goduto di buona stampa, cioè ha avuto una discreta reputazione nelle recensioni dei media e nel rimando televisivo; ha avuto un pubblico crescente, competitivo, giovane, mediamente colto e leader di acquisti, ovvero decisivo nella capacità di attrarre la pubblicità.

Sono questi alcuni dei segnali di cambiamento nella comunicazione di inizio millennio. Ma se le trasformazioni non sono dominate dagli attori sociali non riescono ad incarnare il cambiamento e tendono a diventare crisi; per questo la crisi è così al centro del dibattito politico e mediale.
Sappiamo che gli uomini tendono a modernizzarsi nella sfera della comunicazione e delle tecnologie, ma non riusciamo a spiegare come mai fenomeni così nuovi nel mercato della comunicazione non sembrano trovare una controprova nel campo della società, della politica, dell'educazione. Forse perché il nostro atteggiamento di resistenza al cambiamento si esprime nella tendenza al divertimento nel teatrino della comunicazione, come se fosse ipertesto di cambiamenti che non abbiamo il coraggio di assumere nella vita e nel comportamento.


L'intervento è tratto da:
- Piepoli N., Baldassari R., L'Opinione degli Italiani. Annuario 2009, Franco Angeli, Milano, 2009.

Le immagini appartengono a:
- www.repubblica.it
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