lunedì 27 aprile 2009

Liberiamo i libri, di Paulo Coelho

In realtà non possiedo molti libri. Alcuni anni or sono ho fatto determinate scelte di vita, improntate all'idea di cercare di ottenere il massimo della qualità con il minimo di oggetti materiali. Questo non significa che io abbia optato per una vita monastica; anzi, all'opposto, quando non siamo obbligati a possedere un numero infinito di oggetti, la nostra libertà è immensa.

Per tornare all'essenziale, la mia decisione ha voluto dire che nella mia biblioteca conservo soltanto 400 libri.
La decisione è stata ispirata da ragioni molteplici, una delle quali è la tristezza generata dal fatto di vedere collezioni messe insieme con cura nel corso di una vita e poi svendute a peso, senza il minimo rispetto.

Un'altra ragione: perché dovrei avere in casa tutti questi volumi? Per far vedere agli amici che sono un tipo colto? I libri che ho acquistato saranno molto più utili in una biblioteca pubblica, che non a casa mia. Un tempo ero capace di dire che mi servivano, perché li avrei consultati. Ma oggi, ogni volta ho bisogno di una qualunque informazione, accendo il computer, digito una parola chiave e mi compare davanti ciò che mi serve. Ecco internet, la biblioteca più vasta della Terra.
Naturalmente continuo a comprare libri: nessun dispositivo elettronico li può rimpiazzare. Ma appena ho terminato di leggerne uno lo lascio libero di viaggiare, lo passo a qualcuno o lo consegno a una biblioteca pubblica.

Il mio intento non è quello di salvare le foreste o di mostrarmi generoso; è solo che penso che un libro abbia un'esistenza propria e non debba essere condannato a restare immobile su uno scaffale.
Essendo uno scrittore, e campando di diritti, forse sto facendo propaganda a mio svantaggio. Ma comportarsi diversamente sarebbe ingiusto nei confronti del lettore, specie nei paesi in cui molti dei piani d'acquisto stabiliti per le biblioteche non hanno come criterio di base una scelta seria. Quindi lasciamo che i libri viaggino e che altre mani li tocchino.

Mentre scrivo, mi viene in mente, sia pure in modo vago, una poesia di Jorge Luis Borges che parla dei libri che non verranno mai più aperti. Mi trovo in una cittadina dei Pirenei francesi, seduto in un caffè. Si dà il caso che a casa, a un paio di chilometri da qui, abbia l'opera completa di Borges; è uno scrittore che rileggo in continuazione. Perché non fare la prova?

Attraverso la strada. Cammino per cinqueminuti, fino a un altro caffè, fornito di computer (un tipo di locale noto con il nome chiaro e al tempo stesso contraddittorio di cybercafè). Saluto, ordino un'acqua minerale, apro un motore di ricerca e digito alcune parole dell'unico verso che riesco a ricordare, insieme al nome dell'autore. Meno di due minuti dopo ho davanti agli occhi la poesia completa:

C'è un verso di Verlaine che non ricorderò più,
c'è una strada vicina ch'è vietata ai miei passi,
c'è uno specchio che m'ha visto per l'ultima volta,
c'è una porta che ho chiuso sino alla fine del mondo.
Tra i libri della mia biblioteca (li sto vedendo)
ce n'è qualcuno che non aprirò più.

In effetti ho l'impressione che non riaprirò mai alcuni dei libri che ho dato via. Penso però che sarà meraviglioso che la gente possieda una biblioteca; il primo contatto che i bambini hanno con i libri nasce dalla curiosità nei confronti di questi volumi rilegati, con illustrazioni e lettere. Ma penso anche che sia fantastico quando durante una sessione di autografi mi imbatto in lettori con copie usatissime. Significa che il libro ha viaggiato proprio come viaggiava, durante la scrittura, l'immaginazione dell'autore.


Il contributo è tratto da:
- Wired, No. 1, Marzo 2009

L'immagine appartiene a:
- www.pictures.gi.zimbio.com

venerdì 17 aprile 2009

L'Ecologia delle Notizie, di Al Gore

Il giornalismo tradizionale sta vacillando ovunque. I quotidiani, i newsmagazine e i network tv che trasmettono notizie erano in crisi già prima della recessione globale e lo sarebbero stati comunque. Se si aggiunge la crisi finanziaria, si comincia a intravedere una rivoluzione epocale: di quelle che trasformano in maniera irreversibile gli ecosistemi.
Di quelle che uccidono i dinosauri.

Nello stesso tempo, il nuovo mondo digitale intorno a noi sta fiorendo in una complessità straordinaria. Il Ventesimo è stato il secolo dei titani: due dozzine di aziende gigantesche, due centri di potere principali e nuovi strumenti che si contavano sulle dita di due mani. Il Ventunesimo secolo è già diverso: massicciamente multipolare, online, e realmente in grado di cambiare il mondo.
E la posta in gioco è molto, molto alta.

Per dare un senso a questa trasformazione mondiale avremo bisogno di un giornalismo migliore di quello a cui siamo abituati. Da parte nostra, come cittadini e utenti dei media, stiamo diventando più bravi a servirci delle notizie. Siamo ormai allenati a quella corsa a ostacoli che, ormai da dieci anni, è l'informazione. Cerchiamo. Filtriamo. Condividiamo.
Queste capacità non sono distribuite in modo uniforme ed equo, ma si stanno diffondendo rapidamente e danno ragione alla speranza: la sfera pubblica è più viva che mai. Quindi mai come oggi abbiamo bisogno di buon giornalismo, e la novità è che può trovare un pubblico più ampio di quanto non abbia avuto finora.

Ma in questo momento di grandi opportunità ci troviamo di fronte a una crisi: le news stanno morendo.
Si sentiranno i guru dire che la causa sono i pc, i cellulari, internet e i browser. La tecnologia sarà l'unica colpevole. Ha ucciso le news, ma alla fine le salverà.

Ma focalizzarsi solo sulla tecnologia è un errore. La vera sfida, quella più seria, ha a che vedere con l'intero sistema.
Anche quando le notizie si spostano online, sembra esserci qualcosa di sbagliato nel modo in cui sono confezionate e diffuse. Sono troppo lente, ingessate. Il tono è raramente in sintonia con quello del web. Sembrano pensate per fornire i prodotti sbagliati. Una rivoluzione che produca buone news va ben oltre i siti web, la multimedialità, i blog, i contenuti generati dagli utenti o qualsiasi altra tecnica su cui passiamo tanto tempo prezioso a discutere. Richiede nuovi sistemi e nuove organizzazioni.

Vorrei suggerire un'analogia con l'unico sistema nuovo degli ultimi anni che ha avuto un successo enorme. Non è stato costruito per le news, anche se è stato oggetto di infinite news: mi riferisco alla campagna elettorale di Barak Obama.
L'uso che Obama ha fatto della tecnologia è stato molto decantato, e a ragione. Ma la tecnologia da sola non lo avrebbe fatto vincere. Lui l'ha saputa combinare con nuove opportunità di partecipazione e nuove strategie per organizzare i sostenitori e la gente sul territorio. Ha rischiato forte nella "devolution" dell'informazione, concedendo il potere di prendere decisioni ai volontari, alla base del partito. E nel frattempo ha raccolto più denaro di qualsiasi altra campagna elettorale della storia.

La tecnologia è stata usata anche per comunicare tutta la complessità che richiede una democrazia sana. Il discorso chiave di Obama, quello sulla razza, ha prodotto solo brevi titoli e clip tv, ma 10 milioni di persone lo hanno scaricato dal web per intero. Un momento di crisi si è trasformato in un punto di non ritorno che è stato anche l'inizio del successo.
Grazie all'abilità di Obama nel costruire un sistema, gli Stati Uniti si sono guadagnati il governo di cui hanno bisogno in uno dei momenti più difficili della loro storia. E ora abbiamo bisogno di un giornalismo che ne sia all'altezza.

Questa è una delle ragioni per cui Joel Hyatt ed io abbiamo creato Current, un network di notizie a carattere partecipativo disponibile in tutto il mondo sul web e in tv, compreso Sky Italia. Vogliamo contribuire a un sistema alternativo che sappia anche generare profitto. Come la campagna di Obama, Current mescola la tecnologia, la partecipazione massiccia e la gente sul territorio, tutto per un obiettivo a cui vale la pena credere. E che possa essere commercialmente vantaggioso.

Voglio sottolineare un'importante differenza: ci sono altre organizzazioni che cercano di imbrigliare il potere della partecipazione in nome della notizia. Ma pochi lo combinano, come facciamo noi, con cittadini giornalisti e reporter sul posto, in ogni luogo del mondo. Noi sollecitiamo i contributi sul nostro sito, ma mandiamo anche i nostri giovani e coraggiosi giornalisti Vanguard in alcuni dei posti più pericolosi del mondo. La tecnologia da sola non vi porterà mai nel cuore di Mogadiscio o nello stretto di Malacca.

Nel momento in cui molte organizzazioni di news si ritirano e pensano a Internet come a un modo per tagliare i costi e sostituire le inchieste internazionali e investigative, Current investe in entrambe.
Pensiamo ancora alla campagna di Obama, la prima davvero figlia del nuovo secolo, e a come ha mobilitato migliaia di persone. Le ha spinte a fare chilometri, a bussare alle porte, a coinvolgere i vicini. La lezione è che la tecnologia è solo una parte del sistema. E quando si innova il sistema, si cambia il mondo. Current sta facendo questo. Ma abbiamo bisogno che altri facciano gli stessi passi, perché gli obiettivi sono troppo grandi per noi soli. Se tutti insieme accettiamo la sfida, possiamo creare una nuova "ecologia delle notizie", che vada incontro alle opportunità e alle necessità del nostro tempo.


Il contributo è tratto da:
- Wired, No. 1, Marzo 2009

L'immagine appartiene a:
- www.agoramagazine.it

domenica 12 aprile 2009

Aiutiamo l'Abruzzo!

La Facoltà di Scienze della Comunicazione della Sapienza di Roma partecipa al lutto per i tragici avvenimenti che hanno colpito l'Abruzzo e ricorda che la Sapienza ha aderito all'iniziativa della Crui (Conferenza dei Rettori delle Università Italiane) per una sottoscrizione di solidarietà a favore dell'Università dell'Aquila e della Casa dello Studente.

Per donare è sufficiente inviare una e-mail all'indirizzo ufficiostipendi@uniroma1.it o una comunicazione via fax al numero 06 49910466, precisando l'importo che si intende devolvere (minimo 20 euro).

Gli studenti e tutti coloro che non percepiscono emolumenti dall'Università possono offrire il loro contenuto effettuando un versamento sul conto aperto della Crui, intestato a Università emergenza Terremoto, codice Iban IT 80 V 03203 000500074995.

martedì 7 aprile 2009

Il Web e le comunità documentali, di Maurizio Ferraris

Si parla molto in questi mesi di Facebook, si dibatte se valga la pena di entrarci e soprattutto ci si chiede un po' angosciatamente come fare a uscirne una volta che ci si è dentro. Ma è la punta emersa dell'iceberg, in un mondo del web dove sono possibili tradimenti, pellegrinaggi a Fatima, shopping a Londra e persino confessioni via email, con assoluzioni per posta ordinaria. Ecco il mondo nuovo, altro che la conquista di Marte.

Un mio amico che insegna a New York e ha la famiglia in Italia, si vede da anni recapitare ogni giorno la spesa che la moglie fa per lui sul sito di un supermercato americano. Nella sua semplicità, questa situazione rivela trasformazioni impensabili poco tempo fa e suggerisce interrogativi che la fantascienza non si era mai posta. Per esempio, le suore di clausura che oggi navigano su internet sono ancora in clausura? Di certo, un detenuto che, per ipotesi, avesse accesso a Second Life non sarebbe davvero in prigione, ed è per questo che il web è vietato in carcere.
Quando si è parlato del telelavoro non si pensava che si sarebbe stata anche la teleamicizia, la telefamiglia e la televita. Quelle che si creano o si trasformano sono comunità, non solo circuiti di sapere nello stile di Wikipedia, come si pronosticava non molto tempo fa (L'intelligenza collettiva di Pierre Lévy è del 1994). La trasformazione non riguarda quello che si sa (per importante che sia), ma quello che si fa, come lo si fa, e il modo in cui lo si vive.

Qual è la vera leva di questo gigantesco cambiamento, che non è avvenuto all'epoca della televisione, dei telefoni e dei jet, ma ha dovuto attendere i computer e i telefonini? Si risponde spesso che la svolta dipende dal "virtuale", che vuol dire tutto e niente. Io azzerderei una risposta un po' più precisa. Secondo me, il vero eroe è l'estensione ".doc", quella abbrevazione di "documento" che ha invaso la nostra vita da un paio di decenni. Le comunità virtuali sono comunità documentali, basate cioè sulla condivisione di scritture e di protocolli invece che di parole e di vicinanza fisica. E non è affatto detto che siano più inautentiche delle comunità "naturali". Di certo, al loro interno c'è un dialogo più intenso. Ecco il senso del cambiamento.

La documentalizzazione della vita, in effetti, non è una novità assoluta: religioni si sono formate sui libri, nazioni su costituzioni, opinioni su giornali, e già Werther e Jacopo Ortis si struggevano sulle chat dell'epoca. Ma, come sempre, il web, grande rete di scritture e di registrazioni, ha portato un salto di qualità, per non parlare delle biotecnologie, dove la gestione della vita è sempre più documentale: dal Dna ai protocolli per la fecondazione assistita, alle famiglie basate sui documenti piuttosto che sul sangue.
Se le cose stanno così, siamo solo sulla soglia di una trasformazione piena di promesse (e non solo di minacce, come vogliono i conservatori), in cui sembra realizzarsi la credenza rabbinica narrata da Gershom Scholen nei Segreti della creazione: il mondo è stato costituito da una aggregazione di lettere.


Il contributo è tratto da:
- Wired, No. 2, Aprile 2009

L'immagine appartiene a:
- www.labont.it

lunedì 6 aprile 2009

Il Web vi opprime? Prendete il metrò, Intervista a Clay Shirky


In un articolo che ha fatto il giro del mondo affermi che ogni minuto in cui guardiamo la TV anziché arricchire Wikipedia è tempo buttato. Non ti pare di essere un po' integralista?

  • Ma no, non dico questo. Dico che qualsiasi sostanza è velenosa in grandi quantità. La questione con la TV non è se guardarla o no: ma capire come sia diventata una specie di babysitter del mondo. Venti ore alla settimana o più di TV? Non è troppo?

Questa non è un'analisi nuova...


Certo che no. Tra il 1950 e oggi la TV è diventata "il" mezzo, il più potente nella storia del mondo. E quello con la potenza di assorbimento più totalizzante. La radio non creava quello stato vegetativo nell'ascoltatore.


Nel tuo ultimo libro, Uno per uno, tutti per tutti (pubblicato da Codice il 27 marzo), fai degli esempi di partecipazione che hanno reso possibili archivi fotografici creati dal basso, o ricerche mondiali di un telefonino perduto. Tutte belle storie, ma hai anche esempi moralmente più proficui? Iniziative partecipate impensabili prima, e che migliorano il mondo?
  • Ce ne sono moltissimi. L'anno scorso i fan di Josh Groban, il cantautore, hanno aperto una fanboard per fargli un regalo di compleanno: la raccolta di fondi per un progetto a favore degli orfani in Sudafrica. Hanno messo insieme quasi 50mila dollari attraverso la rete. Senza internet non ci avrebbero neanche potuto pensare. E quest'anno lo hanno rifatto. Ma non devi sottovalutare i progetti spontanei di condivisione apparentemente meno "importanti".

Tipo?

  • Anche quando le persone fanno delle fesserie frivole - mettere su Flickr foto di gatti che ridono, commentarle e archiviarle assieme - per me è comunque meglio che stare a guardare la TV.

Non sarebbe meglio utilizzare quegli strumenti per fare qualche cosa di più utile?

  • Se vedi il bicchiere mezzo vuoto e hai una visione utopistica del mondo per cui tutti potremmo fare grandi cose, le foto dei gatti sono una perdita di tempo: ma per come la vedo io è decisamente meglio che guardare la TV.

Ma non è che condividere le foto dei gatti generi un'infondata consapevolezzadi partecipazione, un alibi per non fare altro? Se sto davanti alla TV, almeno so sto buttando via il tempo e mi sento in colpa...

  • Tu sei troppo ambizioso. Ti ripeto che è meglio fare qualunque cosa, sempre. E poi ognuno sceglie cosa fare degli strumenti che ha a disposizione: sta a noi escogitarne l'uso migliore.

Già... Eppure il successo di Facebook in Italia è spinto dal messaggio che ci puoi trovare i compagni di scuola. Non sarebbe meglio dire che ci si possono fare anche delle grandi cose?

  • Ma si fanno grandi cose con Facebook! In California ha portato al voto molti immigrati che neanche sapevano di averne il diritto. La partecipazione è questo, il creare delle iniziative dal basso e usare al meglio gli strumenti per farle crescere.

Non pensi che anche le élite abbiano il dovere di educare le masse? Non ridere, era una citazione. Capisci cosa intendo?

  • Sì. Ma non penso che Internet sia utile in questo senso. Io non credo alla perfezione, alle utopie e alla loro diffusione. Credo che il miglioramento sia in queste nuove opportunità.

Tu quindi pensi che l'uso del Web nella comunicazione politica non sia soltanto un bluff...

  • No, non lo è. Basta avere chiaro di cosa si parla. La campagna di Obama ha dimostrato che era falso che il Web servisse per il fundraising e non per l'organizzazione. Lui non ha educato le masse ma ha usato un sistema di strumenti online per organizzarle e mobilitarle. Nel 2006 (prima dell'annuncio della candidatura) nessuno avrebbe scommesso un centesimo su un presidente nero. E la ragione della rivoluzione è stata il suo uso dei social media. In America i giornali hanno questo mito della neutralità: se solo i media tradizionali avessero seguito Obama e la sua campagna, gli elettori avrebbero continuato a percepirlo come un alieno senza una chance. Sono cose come i video di Will.I.Am e Obama Girl che hanno contribuito a renderlo un candidato plausibile.

Dici che se McCain avesse usato la rete allo stesso modo di Obama avrebbe avuto più chance?

  • McCain ha provato a usare il Web per raccogliere fondi. Ma ha messo sul suo sito delle cose preconfezionate che i suoi sostenitori potessero copiare e incollare sui blog. Questo perché non si fidava dei suoi supporter. Non li ha invitati a partecipare: non ha lasciato che fossero loro a costruire la campagna.

Ma tu riesci a gestire in modo qùequilibrato il tuo tempo e tutte le cose che la rete ti consente?

  • Il Web è una macchina da distrazione. Sempre, quando si passa da un uso occasionale a un uso continuo di una cosa nuova, bisogna trovare un modo per mantenere l'attenzione e la concentrazione. Senza venirne travolti. Questo è senz'altro un problema reale.

A chi lo dici.

  • Non hai ancora visto niente. Ora metono il wi-fi sugli aerei. La genete guarderà dei porno in volo sul Pacifico. Ma io credo che troveremo i modi per adattarci.

E il tuo modo qual è? Come sei riuscito a scrivere il tuo ultimo libro, per esempio?

  • Ho fatto un paio di cose. Intanto ho tagliato molte letture: giornali, riviste e newsletter.

E quando fai così non hai paura di perderti qualcosa che magari ti servirà in futuro?

  • Sì, e succederà per forza: ma ti devi abituare all'idea che non saprai mai tutto. E' un'illusione da abbandonare quella per cui puoi seguire tutto quello che avviene. E poi ho trovato degli spazi sicuri. A volte sono rimasto sulla metropolitana per due ore, perché mi distraevo meno che stando sul Web. Facevo il giro completo della linea. Bisogna sapersi volontariamente staccare da tutte queste cose.

di Luca Sofri


Il contributo è tratto da:
- Wired, No. 2, Aprile 2009

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- happenupon.files.wordpress.com

mercoledì 1 aprile 2009

Harold Lasswell - Il Modello di Lasswell

Un metodo corretto per descrivere un atto comunicativo consiste nel rispondere alle seguenti domande:
  • chi
  • dice che cosa
  • per mezzo di che canale
  • a chi
  • con quale effetto
E' con queste parole che Harold Lasswell, nel 1948, tentò di organizzare un campo di studi allora caotico come quello della comunicazione. Il modello di Lasswell ha il merito, infatti, di identificarsi come il primo tentativo di introdurre allo studio dei processi comunicativi, attribuendo ruoli e parti ai diversi soggetti coinvolti nonché precise dinamiche di interazione.

Oltre a descrivere più analiticamente il processo comunicativo, il modello di Lasswell, come detto, si presta ad organizzare il campo della ricerca e dell'analisi in aree aventi distinti oggetti di indagine.
  • Prestare attenzione a "chi" attiva il processo comunicativo significa collocarsi nell'area di studio dell'emittenza: vale a dire di quei soggetti che producono messaggi comunicativi. Gli studi sull'organizzazione del lavoro giornalistico, delle emittenti televisive e delle nuove tecnologie della comunicazione si inscrivono all'interno di un filone di studi che ruotano intorno alla figura dell'emittente e che hanno percorso due strade, l'una tracciata dalla sociologia delle professioni, l'altra dalla sociologia del lavoro e dell'organizzazione.
  • Prestare attenzione a "cosa" viene comunicato, invece, comporta un'automatica collocazione nell'area di studio del messaggio. Il filone estremamente ricco della content analysis trova in Lasswell, infatti, il suo padre fondatore, con studi pionieristici sulle tecniche di persuasione utilizzate durante la prima guerra mondiale. Questa metodologia di ricerca cotninua a rappresentare un'applicazione esemplare dell'analisi del contenuto, pur con tutti i limiti connessi all'adozione di un'approccio basato sul conteggio dei simboli-chiave e sull'assunto implicito di un'univoca interpretazione del messaggio da parte dei destinatari.
  • Prestare attenzione a "chi" è il destinatario del messaggio implica l'assunzione di un focus d'attenzione centrato sul pubblico dei media. GLi studi sull'audience dei media sono incredibilmente cresciuti negli ultimi anni, a testimonianza della centralità di una problematica a lungo ignorata.
  • Infine, prestare attenzione a "quali effetti" vengano attivati nei destinatari significa entrare di forza nel campo di studio degli effetti, che ha attraversato l'intera storia della mass communication research. Gli effetti intenzionali o inintenzionali, diretti o indiretti, a breve o a lungo termine rappresenteranno, infatti, sin dagli inizi, il campo privilegiato degli studiosi alla perenne ricerca di conseguenze attribuibili all'azione dei media.
L'organizzazione del campo di studio, frutto dell'applicazione del modello di Lasswell, continua a rappresentare un utile strumento di lavoro per organizzare la raccolta dei dati e per costruire una prima visione di insieme, come si evince dalla rappresentazione grafica di tale modello (clicca sull'immagine per ingrandirla):
Ma per quanto possa apparire di buon senso, la lista di Lasswell presenta notevoli difetti di omissione, individuati, fra gli altri, da Schulz:

  • I processi comunicativi sono asimmetrici: ci sono un soggetto attivo che emette lo stimolo e un soggetto piuttosto passivo che viene colpito da questo stimolo e reagisce.
  • La comunicazione è individuale, un processo che riguarda innanzitutto singoli individui e che è da studiare su questi individui.
  • La comunicazione è intenzionale, l'introduzione del processo da parte del singolo comunicatore avviene intenzionalmente ed è, in genere, diretta a uno scopo; il comunicatore mira a un determinato effetto.
  • I processi comunicativi sono episodici: inizio e fine della comunicazione sono temporalmente limitati e i singoli episodi comunicativi hanno un effetto isolabile e indipendente.
In altre parole, il modello di Lasswell immagina un comunicatore esclusivamente attivo e un destinatario solo passivo, ignora i ruoli sociali, economici, di genere di entrambi gli interlocutori, immagina la comunicazione come un processo isolato e dedito a un fine preciso, non tenendo conto delle interferenze e dei filtri complessi che ne modificano sempre il senso.

Pur con questi limiti ed omissioni, il modello di Lasswell, tuttavia, si pone come una pietra miliare che segna il punto di partenza di un percorso conoscitivo ancora in corso.


Bibliografia
- BENTIVEGNA S., Teorie delle Comunicazioni di Massa, Laterza, Roma, 2003
- LASSWELL H.D., The Structure and Function of Communication in Society, 1948
- LOSITO G., Tendenze e Problemi della Ricerca Sociale sull'Emittenza, 1988
- SCHULZ W., Ausblick am Ende des Holzweges, Publizistik, 1-2, 1982
- VOLLI U., Il Libro della Comunicazione, Il Saggiatore, Milano, 1994