sabato 24 gennaio 2009

Facebook: Un mondo fatto di noi, di Mihaela Gavrila

Facebook - libro-faccia, rappresenta il classico esempio di mondo fatto di noi.

Rispetto alla comunicazione tradizionale, questa rete-movimento che è nata online garantisce al soggetto l'illusione di auto-costruire e auto-determinare il proprio spazio comune e la rappresentazione pubblica del privato.

All'improvviso, pubblico e privato si compenetrano: lo spazio pubblico si costruisce intorno alla nostra identità, attraverso la sovrapposizione di impronte lasciate da noi stessi e dai nostri amici.

Si tratta di una rete di relazioni sociali vera e propria, che ha bisogno di manutenzione, che implica continuo aggiornamento e partecipazione e che, solitamente, si integra con una rete di relazioni in presenza.

Solitamente, ci chiedono di diventare amici persone che conosciamo o che ci conoscono, con le quali abbiamo condiviso esperienze, infanzia, formazione, lavori, e che per un motivo o per un altro non vogliono perderci di vista.

E mentre il Grande Fratello è il reality in un mondo costruito per noi, con personaggi che ci assomigliano ma non conosciamo, su Facebook il reality ci vede coprotagonisti. Possiamo spiare nella vita dei nostri "amici" che a loro volta possono guardare senza pudore nella nostra. Il grande confessionale si è all'improvviso allargato.

Ma Facebook non è solo l'espressione pubblica di quello che riteniamo che si debba sapere della nostra vita. E' anche uno spazio di condivisione di passioni, letture, atteggiamenti e stili di vita (ciascun "amico" può segnalare una lettura, un film, una rappresentazione teatrale che ha inciso nella sua vita e sensibilità). Ci permette di segnalare eventi importanti, di creare movimenti e prendere posizione rispetto a problemi pubblici.
E', infine, un modo per recuperare la memoria e l'identità. Due dimensioni che fanno i conti con i tempi sociali ed individuali, con l'esperienza di sé e la ricerca dell'altro, e che hanno quanto mai bisogno di riemergere in una modernità senza istruzioni per l'uso.

La funzione primaria della comunicazione pubblica è generalmente quella di promuovere l'accesso e la partecipazione dei cittadini ad uno spazio comune, all'ambito di ciò che riguarda la vita di tutti e di ciascuno. La nostra riflessione mira, in primo luogo, a problematizzare il concetto di comune così come viene pensato e vissuto oggi, ed in secondo luogo, ad esaminare i diversi modelli semiotici e le differenti piattaforme comunicative con cui esso viene socialmente costruito.
La constatazione da cui muovere il nostro ragionamento è che lo spazio del comune sia oggi sempre più a rischio, eroso, sgretolato, sentito tendenzialmente come qualcosa di estraneo ed insicuro. Come profughi in terra straniera, nello spazio del comune gli individui si limitano a starci ma non riescono davvero a farne parte. Da qualche tempo stiamo assistendo ad un progressivo smantellamento delle strutture e delle istituzioni del welfare e - per citare Bauman - alla conseguente trasformazione dello Stato sociale in uno Stato dell'incolumità personale, in cui le questioni dell'assistenza e della solidarietà sociale tendono ad essere declinate e risolte prevalentemente sotto forma di problemi di sicurezza individuale. Questo processo ha di fatto posto le condizioni per la desertificazione del mondo comune e la produzione in esubero di quote crescenti d'im-mondo, ovvero di zone persone e cose che non riusciamo a sentire come parte di un universo condiviso e ad assorbire nel nostro spazio di vita. Si considerino, ad esempio, le recenti emergenze della spazzatura e dei clandestini: nell'uno e nell'altro caso si tratta di parti del mondo nei confronti delle quali ci approcciamo come fossero rifiuti da espellere piuttosto che risorse da capitalizzare e "riciclare", ovvero reimmettere nel ciclo del nostro sistema di vita.
Dal nostro punto di vista tutto ciò non è che il riflesso di una stridente contraddizione che si sta facendo strada nella semantica del comune. Comune, come si sa, ha il duplice significato di "condiviso" ma anche di "banale" (come quando si dice di un oggetto che è ordinario, comune appunto). Banale tanto è condiviso, condiviso in quanto discende direttamente da un Unwelt preriflessivo, non tematizzato, ma dato per scontato, banale. Ebbene, questi due significati di "condiviso" e "banale" tendono a disconnettersi fra loro, ed anzi ad entrare in contraddizione l'uno con l'altro. L'area di ciò che è condiviso si restringe fino ad interessare gruppi sempre più limitati e circoscritti, mentre tutto ciò che è al di fuori di essi viene abbandonato, bandito, banalizzato (tale è l'articolazione semantica del banale). Questa contraddizione fra un "condiviso" sempre più ristretto e un "banale" disertato dal sé e abbandonato in balia di non si sa chi, produce la paradossale inversione semantica del comune nell'immune, ovvero in un dispositivo che pattuglia e presidia i confini dell'identita escludendone tutto ciò che è altro.
In che modo questa trasformazione della semantica del comune ha a che fare con lo scenario dei media e della comunicazione oggi? Ed in che modo, con quale nuovo modello enunciativo e patto comunicativo si può arrestare la deriva immunitaria in cui sembra essere precipitato al momento il comune?
In questa sede non possiamo che procedere per spunti e semplificazioni. Uno dei problemi ricorrenti della modernità (a partire dal blasé simmeliano alle prese con il sovraccarico di stimoli della metropoli) è sempre stato quello di riequilibrare il flusso delle informazioni rese disponibili con la capacità degli individui di gestirle ed assorbirle in un patrimonio comune di senso. Storicamente il modello semiotico che ha funzionato meglio per ovviare a questa (Beniger) è stato quello che definiremmo del crisi di controllomondo fatto per noi, ovvero di un'offerta comunicativa plasmata in funzione del pubblico atteso e nella quale il pubblico stesso è stato chiamato con successo ad identificarsi. Ovviamente in questo caso il pubblico è presente come lector in fabula, sotto forma di simulacro concepito dai produttori del testo. Questo modello di comunicazione sembra oggi aver smarrito parte della sua funzione propulsiva e della sua capacità di realizzare forme inclusive di comunic-azione.

Nell'ambito dei social network e dei cosiddetti content user generated si sta sperimentando un nuovo modello enunciativo, quello del mondo fatto di noi, che non fa più leva sul simulacro ma sull'impronta. Prendiamo ad esempio i sistemi di social filtering mediante tag attribuite dagli utenti: i flussi dell'information overload non sono ridotti da un agente centralizzato che li organizza e li semplifica per l'utenza, ma direttamente classificati, filtrati, ri-mediati da coloro che ne fanno uso e che usandoli vi lasciano la propria impronta e li identificano della propria patina, cioè della memoria dei propri usi pregressi e del proprio capitale reputazionale.

Non è in questione l'ormai abusata contrapposizione di maniera fra vecchi e nuovi media, ma l'elaborazione di nuove strategie comunicative finalizzate a ripristinare il senso autentico del comune.
Ad esempio, anche i programmi televisivi iniziano a dare alcune deboli risposte alla domanda di un mondo fatto di noi nel momento in cui intorno ad essi si addensano fanship votate a pratiche conversazionali. E' arrivato oramai il momento di allarmarsi per l'indebolimento del patto comunicativo che le nuove generazioni, sempre più critiche rispetto all'omologazione entro un mondo fatto per noi dai network tradizionali.

Comprendere ed elaborare strategie di inclusione dei giovani, vuol dire recuperare e orientare il punto di vista di una generazione non più dominata dalla monocultura televisiva, osservando da un grandangolo privilegiato la veloce evoluzione dei nuovi media, che non esclude la tv ma la "ingloba" all'interno di altri consumi quotidiani, permettendo così un più ampio e diversificato rapporto governato da bisogni ed interessi individuali entro una cornice necessaria di senso del comune.

Riflettiamo, dunque, sullo scenario di una società in cui ogni individuo attinge ad una sua fonte di informazione, in cui il confronto avviene entro una rete di bisogni e obiettivi relativamente comuni, anche se virtuali, in cui i percorsi della conoscenza seguono vie guidate esclusivamente dalla ricchezza disorganizzata della Rete, in cui ognuno finirebbe per avere sistemi valoriali e conoscitivi diversi dagli altri. Tuttavia, è doveroso un interrogativo: dove si ri-trova la società e lo spazio pubblico? A chi spetterà il ruolo di garantire al soggetto gli strumenti per la partecipazione sociale e culturale? Quale sarà il grande broadcast della conoscenza condivisa? Chi garantirà quel minimo necessario e (in)sufficiente di capitale culturale condiviso dai membri delle comunità reali e virtuali?

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