mercoledì 25 febbraio 2009

Crisi globale e comunicazione, Intervista ad Alberto Abruzzese

Sentiamo ripetere ogni giorno che l’attuale crisi economica sta avendo effetti devastanti sulla produzione industriale. Quale dovrebbe essere la strategia di reazione da parte un’azienda che vuole salvaguardare la propria immagine ma sa già di andare incontro ad una forte riduzione del fatturato?

• Questa congiuntura – crisi di fatturato con tutte le sue ricadute sociali sulla sfera pubblica e privata del lavoro e della qualità della vita – è forse la grande occasione per la cultura di impresa di onorare un appuntamento con la società che l’impresa, dopo il suo avvento e ruolo nella costituzione dei sistemi moderni, non ha mai davvero realizzato ad onta del gran suo dire su trasparenza di bilancio, politiche ecologiche, responsabilità etica (e altre “buone intenzioni” che avrebbero dovuto essere assunte come realizzazione di ciò che era stato promesso nel passato e non come innovazione in prospettiva del futuro). A mio avviso la cultura d’impresa non è ancora riuscita a ridefinire il proprio ruolo in termini di soggetto politico e non solo economico (volontà di prendersi a carico il mondo e non delegarlo alla cura degli altri, lasciandosi per sé la certezza del profitto). Molto spesso l’impresa chiede allo stato e alle istituzioni pubbliche aiuti o mediazioni o garanzie che si rendono necessarie a seguito non solo di suoi stessi errori ma anche della sua tendenza a scaricare altrove il lavoro di idee, di ricerca e di formazione di cui dovrebbe farsi carico in prima persona.


Tra tutte le voci di bilancio, quali sono quelle che in una simile situazione vengono ridotte per prime?


• Credo che la logica con cui le aziende tagliano le loro voci di bilancio derivi dai rapporti di potere e gerarchici tra chi la governa al suo interno e molto spesso anche dall’esterno (corporazioni del management, lobbie, clientele, familismo, ecc): i settori protetti saranno così meno penalizzati dei settori deboli e indifesi. Le misura anti-crisi saranno piegate ad interessi di parte invece che agli effettivi interessi dell’impresa. Penso che in molte aziende prevalga comunque l’idea di ridurre le spese in settori che le routine della cultura manageriale in genere considerano come un lusso. Comunque penso che la tentazione sarà quella di andare esattamente in direzione opposta a quella che ci si dovrebbe augurare per le ragioni di cui ho detto nella risposta precedente.


Spesso gli investimenti in comunicazione vengono rimodulati per far fronte a periodi difficili: crede che questa scelta possa avere ricadute negative per un brand?


• Facile rispondere da creativo: spendiamo di meno ma spendiamo meglio, e usciamo dalla tronfia monumentalità della comunicazione al tempo delle vacche grasse (questa dispendiosa rappresentazione di se stesse, per le imprese grandi è stata una possibilità, mentre per le piccole è stata una frustrante impossibilità e quindi una mortificazione della loro fantasia e delle loro potenzialità). Mi rendo conto tuttavia che la questione è complessa: il creativo è pagato da chi rischia e chi rischia non spende volontà e intelligenza per diventare creativo. Sono convinto comunque che la comunicazione ha bisogno di un contenuto, se ora bisogna spendere senza sprecare, allora affrettiamoci a trovare contenuti. E le strutture che non hanno contenuti o si trasformano dall’interno per trovarli o pagano chi sa trovarsi o costruiscono reti di solidarietà sulla innovazione dei contenuti.


L’Economist propone la sua tesi: i marchi che investono in pubblicità nei periodi
di recessione, mentre i competitors tagliano, possono aumentare il segmento di mercato e il ritorno sull’investimento ad un costo più basso in periodi economici favorevoli. È d’accordo?


• L’impresa significa rischio calcolato, se si calcola di avere denaro da investire sulla comunicazione mentre altri non investono e di poterlo fare senza andare in rovina, allora ben venga. Tuttavia, se investo in comunicazione ora come investivo prima e persino di più, può capitarmi, quando si riaprano i giochi della concorrenza, di essere impotente di fronte a chi ha risparmiato sulla comunicazione ma ha ridefinito processo produttivo e contenuti.


Pensa che in questa fase aziende di paesi diversi debbano comportarsi in modi diversi oppure che la strategia di reazione debba/possa essere globale? Le reazioni vanno diversificate in base a settori di produzione diversi?


• Il tempo attuale della globalizzazione, che a ragione delle reti digitali è assai diverso dai tempi lunghi della mondializzazione capitalista occidentale, è caratterizzato da una stretta interdipendenza tra flussi globali e emergenze locali. Dunque oggetti di consumo, bisogni, desideri, servizi, esperienze che vivono in modo glocal (forme di vita in cui la diversità non è una qualità statica, ma al contrario naviga in forme metamorfiche instabili, sempre di nuovo rinegoziabili). La diversificazione degli obiettivi, delle procedure necessarie a realizzarli, ha bisogno culture del mutamento permanente, assai più che di sistemi in cerca di stabilità.


Come crede che debba cambiare la comunicazione delle aziende in un periodo di paura per il futuro come questo che stiamo vivendo?


• L’impresa, come la politica, hanno sempre ragionato a partire dal presupposto della felicità e dalla rimozione della paura. C’è un gran lavoro autocritico che l’impresa dovrebbe fare sulla tradizione moderna dei suoi presupposti etici, estetici e politici. Senza fare questo lavoro (gli uffici studi o fondazioni o altro investono invece in valori storici, celebrativi, tradizionali) non sapremo mai come cambiare la comunicazione. Certo è che non possiamo fare comunicazione per rimuovere la paura di questi anni.


L'articolo è tratto da:
- Xister

L'immagine appartiene a:
- www.moltobene.ilcannocchiale.it

Nessun commento:

Posta un commento